Se il Tour è un romanzo e le tappe i suoi capitoli, le volate sono i colpi di scena. Ce la farà il nostro eroe a respingere gli attacchi dei rivali? L’eroe degli sprint di questo Tour de France 2014 è un ragazzone tedesco che ha poco del tedesco: è simpatico, non se la tira. Ha nelle gambe una potenza feroce. Si chiama Marcel, che non è un nome molto tedesco. Anzi. Di cognome fa Kittel, che tradotto in italiano significa “camice”, “camiciotto” o “blusa”. Marcello Camiciotto ha vinto tre delle quattro tappe sinora disputate. L’ultima, oggi pomeriggio. Sul rettilineo finale di Lille Métropole l’alfiere della Giant-Shimano (quella in cui milita il prode cinese Ji Cheng) è riuscito a rimontare il mucchio selvaggio dei velocisti che avevano congiurato per impedirgli l’ennesimo successo. La sacra alleanza degli uomini sprint è stata vana. Hanno opposto strenua resistenza, sino all’ultima pedalata. Niente. Kittel Camiciotto ha sventato il complotto. Appena dopo l’arrivo, si è quasi accasciato, per lo sforzo. Come un umano qualsiasi. Stravolto dalla fatica. Ma soddisfatto: ormai sta entrando nella leggenda del ciclismo.
Eppure, i rivali di Camiciotto avevano tentato in tutti i modi di isolarlo, di ostacolarlo, di confonderlo. Sino a venti metri dal traguardo, infatti, c’era in testa il norvegese Alexander Kristoff, vincitore della Milano-Sanremo di quest’anno, nonché medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici di Londra 2012. Pareva indemoniato, squassava i pedali con zampate terribili, pur di sfiancare Kittel che gli era rimasto pericolosamente a ruota, come uno sparviero che aspetta l’attimo più favorevole per catturare la preda. Kristoff sapeva che l’altro stava per spiccare il volo. Doveva impedirglielo. Aumentando vertiginosamente la velocità, una progressione micidiale, da asfissìa. Aggrediva l’asfalto degli ultimi metri con rabbia, con cattiveria. La preda era lì davanti, lo striscione del traguardo, la linea immaginaria che divide la vita di ogni ciclista. Chi la taglia per primo entra in un mondo nuovo e meraviglioso. Chi non ci riesce, soffre. Il sogno e la disperazione si giocano in un attimo. Kristoff aveva iniziato il volatone forse troppo da lontano, col senno di poi quella della sua squadra, la russa Katusha, è stata una scelta tattica avventurosa. Presuntuosa. Forse gli uomini della Katusha volevano scombussolare le regole del gioco. La mossa di Kristoff ha provocato confusione, I “treni” dei velocisti sono deragliati. Alexander era stato ben pilotato in cima al plotone negli ultimi tre chilometri dal barbuto “presidente” (così lo chiamano nel gruppo) Luca Paolini, il capo del “treno” Katusha. Se vogliamo, anche nel caso di Kristoff l’apparenza inganna, con quel cognome che suona perfettamente russo, da romanzo di Tolstoj…
In verità, il lavoro più appariscente l’aveva svolto l’Omega Pharma-Quick Step orfana di Mark Cavendish, che sarà operato alla clavicola destra domani, in Germania. Il vice di Mark si chiama pure lui Mark. Per l’esattezza, Mark Renshaw, classe 1982, quest’anno ancora a secco di vittorie. Ma non è inglese. Bensì australiano. Una differenza sostanziale, per carattere, per modo di correre. A Londra si è piazzato terzo, dietro Kittel e Peter Sagan. Gioco forza puntare su di lui, si sono detti i direttori sportivi (tra i quali Davide Bramati). Al suo servizio, hanno allestito un “treno” di lusso: il polacco Michael Kwiatowski, uomo di classifica, campione predestinato (l’Uci lo classifica quinto al mondo) che però si è distratto e ha dovuto spendere un sacco di energie per riacciuffare il gruppo (è giovane, ha appena compiuto 24 anni). Il poderoso tedesco Tony Martin, tre volte campione mondiale a cronometro: pure lui, un nome che inganna. Da attore di Hollywood. Da cantante rock melodico. Mica crucco. Nelle battute finali, era previsto come direttore d’orchestra il veterano Alessandro Petacchi, sapiente velocista che ha quarant’anni ma anche l’esperienza di chi ha vinto tantissimo: ai suoi ordini, il regolarista belga Jan Bakelants (che ha assaporato l’anno scorso il gusto della maglia gialla, vincendo la seconda tappa da Bastia ad Ajaccio) e il giovane trentino Matteo Trentin, e non un gioco di parole.
Tanto rumore per nulla. Con un guizzo da rapace, Kittel affianca e supera Kristoff. Il norvegese picchia i pugni sul manubrio. Terzo è un francese, Arnaud Demare. Ha 23 anni. Quarto, lo sfortunato Peter Sagan che quindici chilometri prima era scivolato a terra. Davanti il gruppo rollava già a cinquanta. Ha speso tutto o quasi il carburante che aveva in corpo, lo slovacco che parla un buon italiano e che però non si risparmia mai. È il beniamino dei giovani e delle ragazze, un Cipollini meno vistoso. L’altro grande velocista, il campione tedesco André Greipel (altro nome assai poco tedesco, quell’André che ricorda a noi vecchi della parrocchia ciclistica un grande sprinter, Darrigade) è solo sesto. Settimo, Renshaw, davanti al ragazzino Danny Van Poppel che non ha ventun anni ma ha il fegato di buttarsi dentro ogni volata. Poi, due italiani: Davide Cimolai e Daniel Oss. I Da-Da dello sprint.
Qualcosina di più dobbiamo dire di Marcel Kittel: è nato l’11 agosto del 1988 ad Erfurt, cuore storico e culturale della Turingia e centro geografico della Germania riunificata. Una città di storia e di industrie, di università e di quel benessere che solo in Germania sintetizza civiltà e passioni. Max Weber era di Erfurt, come il padre di Johann Sebastian Bach, famiglia di grandi musicisti. Fu ad Erfurt che studiò Martin Lutero: tanto per capire quali fermenti scuotevano le mura di questa città. Ora, non dico che Kittels sia il Lutero del pedale, ma i suoi sprint – talvolta imperiali, come a Londra, talvolta sofferti come a Lille – stanno scuotendo l’ambiente.
Ci attende adesso una tappa epica, geniale a suo modo. Poiché il Tour de France ama presentare tutti i volti del ciclismo, perché non metterci quello che più spaventa? La paura dei corridori è il temibile pavé. Dove può succedere di tutto. Una foratura, se ti va bene. Una caduta. L’occasione per i favoriti, da Chris Froome, Alberto Contador e la maglia gialla Vincenzo Nibali, di confermare che sono corridori completi, coraggiosi, e, quando occorre, spavaldi, pur se in cuor loro correranno col timore di lasciarci le penne. Il pavé è spalmato in nove tratti, otto dei quali “rubati” alla Parigi-Roubaix ma da percorrere in controsenso rispetto al tracciato classico, per un totale di 15,4 chilometri: disseminati da Ypres ad Arenberg-Porte du Hainaut. Il che promette di trasformare la corsa in un campo di battaglia. E questa volta, il gioco di parole non è casuale. Gli organizzatori del Tour hanno voluto ripercorrere le linee delle trincee della Grande Guerra, di cui ricorre il centenario in questi giorni e che ha nella belga Ypres, la città martire, divenuta tristemente celebre per gli attacchi di gas e i massacri di un conflitto che costò ai francesi la vita di 1385mila soldati, tre milioni di ettari di terre devastate, 700mila case e 20mila fabbriche distrutte. L’Inferno del Nord. Nel ciclismo, simbolizzato dal pavé. Nella memoria storica, dalle vite di innumerevoli campioni del ciclismo che caddero al fronte. Li voglio ricordare. Octave Lapize vinse il Tour del 1910. Perse la vita in un combattimento aereo, il 14 luglio 1917. François Faber, lussemburghese di nascita, francese nel cuore, volontario della Legione Straniera, vincitore del Tour 1909 (secondo in quello dell’anno successivo), morto al fronte il 9 maggio 1915, falciato da un proiettile shrapnell in piena fronte. Lucien Petit-Breton, ucciso insieme ad un altro noto corridore, Emile Friol, in un incidente automobilistico, durante una missione. I pistards Léon Hourlier e Léon Comès, morti in combattimenti aerei; Emile Engel, Franck Henry, Maurice Thé, Georges Boillot, Anthony Wattelier…gli sopravvisse Henri Desgrange, ardente patriota, creatore del Tour de France, che a 52 anni raggiunse il fronte nell’aprile del 1917, nel periodo più cruento. Due volte si guadagnò la citazione per atti d’eroismo. Rimase in divisa sino all’armistizio. Dopo, rimise in piedi il Tour. Che attraversò un Paese martirizzato. Ma vivo.