L'euforia così bruscamente e drammaticamente interrotta ha già riaperto le polemiche sui costi economici e sociali dell'organizzazione della manifestazione. Sul medio periodo si rischia una contrazione dei consumi e su quello politico si complica la strada per la rielezione di Dilma Rousseff in autunno. Insomma, molto più che un torneo di calcio
“Il Brasile deve rialzarsi, scuotere la polvere e tornare in cima”. Dilma Rousseff pensa probabilmente già alle prossime elezioni presidenziali previste in autunno, quando scrive un tweet per dichiarare il suo immenso dispiacere. Perché questo mondiale da cui il Brasile è uscito umiliato da una Germania spietata, al paese è costato caro: favelas sgomberate, manifestazioni di proteste per i soldi spesi e quelli sprecati, arresti, l’esercito schierato a protezione delle squadre, limitazioni dei diritti civili, stadi-cattedrali nella giungla e chissà quanta corruzione. Il popolo verdeoro, si sa, questo mondiale non lo voleva: pretendeva altro. E solo una cascata di gioia per una vittoria mundial avrebbe potuto lavare via il rancore e le preoccupazioni accumulati. Che ora potrebbero riversarsi anche su i Giochi Olimpici di Rio 2016. Invece è stata la Germania ad andare in finale; una squadra specchio scintillante del paese guidato da Angela Merkel: organizzazione, efficacia, rigore. Quelli dell’ordem e progresso sono stati i teutonici.
Il Brasile è affondato sul campo ma ora rischia di farlo anche fuori. Nella manifestazione il governo aveva investito tanto. La vittoria finale avrebbe potuto generare un circolo virtuoso in tutto il Paese, anche in termini d’immagine e d’economia (come già successo in passato in altri casi): crescita dei consumi per l’euforia della popolazione, più lavoro, più occupazione, boom di turismo e di visite dall’estero. Adesso si rischia l’effetto contrario: una recessione economica, come conseguenza della depressione per la sconfitta. Anche perché l’organizzazione dei mondiali aveva convinto molto poco i brasiliani: alla vigilia del torneo, quasi la metà della popolazione si era dichiarata addirittura contraria. E se una vitttoria avrebbe placato i malumori, la disfatta contro la Germania riporterà presto d’attualità tutte le polemiche sugli sprechi di denaro pubblico e gli sgomberi nelle favelas. È pronto ad esplodere lo scontento per un Mondiale organizzato contro gli interessi del popolo brasiliano, e che al popolo brasiliano non ha regalato neppure la gioia della coppa. Per questo c’è addirittura chi ipotizza sulpiano politico un tracollo della presidente Dilma Rousseff alle prossime elezioni presidenziali in autunno, sull’onda negativa dei mondiali. Lei, per ora, su Twitter si limita ad esprimere il suo “immenso dispiacere”, unendosi al cordoglio del Paese.
Previsioni eccessivamente catastrofiche, si dirà. Ma per il Brasile questo Mondiale era molto più che un torneo di calcio. E quella di ieri non è stata una semplice sconfitta. È presto per capire con precisione l’entita delle ripercussioni della disfatta: il giorno dopo il lutto non è ancora stato metabolizzato. Di certo, per riprendersi dalla delusione del Maracanazo il calcio brasiliano e un po’ tutto il Paese ci misero anni. Rialzarsi dopo il Mineirazo, forse, sarà ancora più difficile.
Il sogno che diventa incubo. Poi l’amaro risveglio di un Paese intero, rimasto solo con le lacrime e la delusione per la sconfitta più umiliante della storia. Il Brasile dopo l’1-7 in semifinale contro la Germania non sarà più la stessa cosa per tanto tempo. Perché il Mondiale di casa sarebbe dovuto finire in una e una sola maniera: con la coppa alzata al cielo dai verdeoro, e la festa di tutta la nazione. Ma mai nessuno, neanche il più accanito detrattore della formazione di Scolari, avrebbe potuto immaginare un epilogo simile. Il “Maracanazo”, la finale persa nel ’50 contro l’Uruguay, disonore tramandato di generazione in generazione, quasi scompare a confronto della disfatta di ieri. Folha de S. Paulo, uno dei quotidiani locali più seguiti, l’ha già ribattezzata “Mineirazo”: “La grande vergogna nel Paese del futbol”, come titola O Dia.
Già, perché l’1-7 contro la Germania è qualcosa più d’una semplice sconfitta in una nazione dove il pallone è cultura e religione al tempo stesso. È innanzitutto il fallimento di una scuola calcistica che si è sempre considerata la migliore al mondo. E invece all’improvviso si riscopre finita: aggrappata a un solo vero talento (Neymar, la sua assenza verrà rimpianta nei secoli), senza una punta degna d’essere chiamata tale. Con una squadra muscolare e priva di fantasia, che non piaceva quasi a nessuno prima, e adesso è già stata scaricata da tutti. Non basta. Perché se nel calcio si ripongono sogni e aspettative superiori, una sconfitta come questa non resta confinata fra le tribune dello stadio di Belo Horizonte, nel solo mondo del pallone. Mentre maturava il passivo, subito sono cominciate le tensioni. Dentro il Mineirao, quattro tifosi sono stati fermati in seguito a violenze. Nelle strade di San Paolo, la folla inferocita bruciava la bandiera del Brasile. Incidenti anche a Rio de Janeiro, dove la polizia è dovuta intervenire con diverse cariche, a Recife e sulla spiaggia di Copacabana. Poi, stando ai resoconti del governo, la situazione è rientrata abbastanza presto nella normalità. La rabbia ha ceduto posto alla rassegnazione.
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