Il titolo è I dannati della metropoli (Milieu edizioni) l’ha scritto Andrea Staid, docente di antropologia culturale alla Nuova accademia delle Belle Arti (Naba) di Milano. E la prima e necessaria domanda è: chi sono questi dannati?
I dannati sono quelle donne e quegli uomini che sono relegati nelle “zone grigie” delle metropoli, del “nostro” paese. Sono migranti che scappano dai loro Paesi per cercare di costruirsi una nuova vita in Occidente, persone che per raggiungere questa possibilità affrontano sulla propria pelle le peggiori ingiustizie. Dannati perché una volta arrivati in Italia o più in generale nella fortezza Europa non hanno quasi nessuna possibilità di guadagnarsi uno spazio di reale libertà. Vengono subito fermati e rinchiusi in un Cie, i centri di identificazione ed espulsione. Dopo settimane che sono rinchiusi in queste galere etniche una parte viene rimpatriata l’altra lasciata uscire con un foglio in mano che gli dice di andarsene con i loro mezzi perché sono cittadini illegali. Da quel momento sono sempre più dannati perché anche se decidono di lavorare onestamente in Italia le leggi non gli permetteranno di uscire dalla semiclandestinità.
Per quale motivo includi fra questi “dannati” anche gli abitanti di viale Bligny 42 a Milano?
Negli ultimi anni mi sono occupato del mondo migrante, l’ho fatto prima analizzando le nuove schiavitù e ora soffermandomi su chi decide di darsi a economie informali piuttosto che essere schiavo. Ne I dannati della metropoli il focus centrale è quello dei confini del legale e per questo ho deciso di passare due anni in Bligny 42, un palazzo famoso a Milano per il soprannome che gli è stato dato dalla stampa il fortino della droga, un luogo vissuto e attraversato da tante etnie, molti migranti arrivati in città per provare a migliorare le proprie vite. Stiamo parlando di almeno 700 inquilini per 222 appartamenti. In questo palazzo ho capito ancora meglio come troppo spesso i media lavorino superficialmente e restituiscano fotografie del reale estremamente falsate, perché se è vero che in Bligny 42 è presente lo spaccio (comunque una minoranza dei migranti che vivono nello stabile) è anche vero che è un luogo dove l’interazione tra diverse culture viene vissuta giorno per giorno e i conflitti che si creano si affrontano senza troppe paure.
E come mai hai scelto di utilizzare un metodo etnografico e antropologico per analizzare il fenomeno dell’”immigrazione selvaggia”?
Sono convinto che il metodo etno-antropologico sia il più adatto per analizzare situazioni di confine e marginalità come quelle affrontate in questo lavoro. Attraverso l’osservazione partecipante e i legami che ho creato in questi anni con gli intervistati ho cercato di andare nel profondo delle loro esperienze. Credo che soltanto creando legami di fiducia, passando settimane, mesi con le persone si possa riuscire a costruire una parte dell’esperienza di coloro che vivono nelle “nostre” metropoli. L’antropologia deve essere polifonica per questo nel mio libro si trovano decine di “incursioni” nel testo, sono le voci delle persone che insieme a me hanno deciso di costruire questa ricerca. Persone che hanno deciso di raccontare le loro esperienze di vita. Grazie a questo metodo ho cercato di chiarire i nessi tra strutture generali di potere e forme di soggettività, capire come e perché si sceglie di delinquere e di ribellarsi ai soprusi quotidiani.