Se ti chiami Germania, e la simpatia non è certo tra i tuoi pregi principali, rifilare sette pappine al colorato e allegro Brasile non ti aiuta di sicuro. Eppure l’armata di pragmatici fenomeni guidata da Joachim Löw merita tutta la nostra gratitudine, perché ha stroncato con cinica ferocia quella che doveva essere una storia già scritta, la sceneggiatura scontata di un filmaccio di quart’ordine. I Mondiali in casa, il ricordo del Maracanazo di 64 anni fa, le tensioni sociali e gli scontri in strada, le contraddizioni di un paese enorme e meraviglioso: tutti gli ingredienti perfetti per un lieto fine stucchevole, con i verdeoro trionfanti tra ali di folla con l’agognata coppa ben stretta tra le mani.
Dall’inizio di questi campionati del mondo abbiamo dovuto sopportare le lacrime emozionate dei giocatori brasiliani, le inquadrature televisive di teneri bimbi felici in braccio al papà, la torbida in festa, gli spericolati parallelismi tra calcio e vita vergati da sedicenti poeti del giornalismo sportivo. Una marea di vomitevoli banalità condite di melodramma come una telenovela brasiliana di infimo livello che fortunatamente si è infranta sugli scogli inamovibili del pragmatismo teutonico. Negli ultimi 25 giorni ci hanno raccontato che il calcio è questo. Nemmeno per idea: il calcio deve essere innanzitutto bel gioco, e la Germania di ieri sera lo ha onorato nel migliore dei modi.
Il mondo non può e non deve essere salvato dalle narrazioni fiabesche di un pallone che rotola, buone solo per gli onanisti del calcio parlato. La tattica viene prima del sentimento, la tecnica prima del racconto epico. La sconfitta della Seleçao di ieri sera è clamorosa, è vero, ma deve entrare a far parte della storia del calcio, non in quella sociale e culturale di un paese che deve affrontare drammi indubbiamente più dolorosi della doppietta di Toni Kroos o del record di gol del vecchio Klose.
Ecco perché all’implacabile e antipatica Germania oggi vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Anche perché non si è fermata e ha continuato a giocare come sa fino all’ultimo secondo del match, nonostante le richieste di pietà per i brasiliani che imperversavano sui social network. Lo sport non è partecipare, con buona pace dello stucchevole barone De Coubertin. Bisogna vincere e, quando si può, stravincere e annichilire l’avversario. Quando poi l’avversario è il Brasile caricaturale di questa pelosa epopea mondiale, la disfatta è ancor più gustosa. È il calcio, bellezza. La vita, per fortuna o purtroppo, è un’altra cosa.