Anche solo un mese fa chi avrebbe mai pensato che ci saremmo trovati a parlare di un processo interno del M5S, proprio contro Luigi Di Maio? E poi che ad avercela col vicepresidente della Camera non sono tanto i dissidenti – casomai quelli sono invidiosi: in un colpo solo Di Maio è stato capace di andare sulle scatole a tutti, essendo più bravo di loro anche in questo – ma i fedelissimi.
È l’invidia a creare i malumori? Viste le persone di cui parliamo, i parlamentari “duri e puri”, prima di pensare che siano mossi da invidia dovremmo fare un ragionamento. Contrariamente ai dissidenti, questi veri grillini hanno mostrato di avere una scala di valori diversa da quella tipica dei politici. Si sono abbassati lo stipendio, mostrando di non essere avidi e non sono andati in tv nei periodi in cui si era deciso di non andare, mostrando di non essere vanitosi. Chiunque abbia ideali più grandi cambia la propria scala dei valori, a volte rinunciando al denaro, altre volte alle comodità (pensiamo ai missionari) e in alcuni casi perfino alla propria vita (soldati, martiri).
Non saranno martiri, ma molti esponenti del M5s hanno rinunciato ai privilegi concessi dalla politica, al loro tempo libero, a più denaro e potere in nome di un ideale. Parlare di invidia è riduttivo, banale e non descrive il sentimento generale che ha portato a questi malumori. Che sono innegabili. Cosa è successo allora?
È nella natura umana riconoscere, magari solo in astratto, valori più grandi della propria ricchezza, del proprio tempo o anche della propria vita. Ma, come nei casi più estremi, per accettare di buon grado gli avvenimenti, è molto importante che le proprie azioni servano concretamente la causa, e importa molto che l’atto stesso del proprio sacrificio rappresenti in quanto tale il trionfo di questi valori supremi. Per questo è particolarmente tragica la sorte di coloro che si sono sacrificati inutilmente. Come negli incidenti di fuoco amico. Ma ancora più tragica è la sorte di chi, per un diverso genere di errore, o a causa di un cinismo particolarmente efferato dei suoi stessi superiori, si vede perfino privato del riconoscimento, da parte di chi resta, del valore del proprio sacrificio.
Per capire lo stato d’animo dei compagni di Di Maio può essere utile rievocare un toccante episodio storico avvenuto nella seconda guerra mondiale in un Paese sotto l’occupazione nazista, raccontato da Arthur Koestler.
Un gruppo di partigiani era riuscito ad infiltrare un informatore nelle maglie della Gestapo. La sua missione era di fornire ad arte ai tedeschi false informazioni. Mediante un’efficace e precisa disinformazione, avrebbe potuto garantire il successo di un’azione di sabotaggio a danno dei nazisti. Ovviamente le sue informazioni dovevano essere false, ma credibili. Come fare per rendere assolutamente credibile l’infiltrato? Considerata l’importanza dell’obiettivo militare, si decise di aumentare la credibilità di quell’informatore agli occhi dei tedeschi facendogli rivelare la vera esistenza e ubicazione di un nucleo combattente partigiano. Con tanto di nascondiglio di armi e altro preziosissimo materiale.
Agli interessati, o piuttosto alle vittime, non venne detto nulla. Fu deciso di immolare questi compagni, a loro insaputa, sull’altare della ragione politico-militare. Per i tedeschi una mossa così spregiudicata non poteva essere stata fatta ad arte ed ebbero fiducia nell’agente. Alcuni sventurati partigiani vennero così intenzionalmente traditi dal loro stesso comando. Uno di loro, sopravvissuto per poco, scoprì accidentalmente come erano andate veramente le cose. Gravemente ferito, trascorse la sua ultima notte straziato, non solo dai dolori e dalla morte imminente, ma soprattutto dal pensiero che l’organizzazione non aveva avuto abbastanza fiducia in lui e nei suoi compagni. Si disperava di non essere stato informato preventivamente della necessità di quella manovra delatoria.
“Avremmo accettato di buon grado questo sacrificio” disse a un compagno di cella prima di morire “ma perlomeno potevano concederci la loro fiducia e dircelo. Quello che mi addolora di più è di dover morire così, ingannato dal nostro stesso comando, per mancanza di fiducia.” Un sentimento di rabbia e frustrazione molto toccante e comprensibile. Il compagno tradito è morto “immolato sull’altare della ragione politico-militare”. Non siamo sotto l’occupazione nazista, ma la politica è una cosa seria e la democrazia con la quale giochiamo è frutto proprio di tante piccole grandi battaglie vinte come questa.
Dunque non è invidia, ma un sentimento nobile è la frustrazione che provano in queste ore i compagni di Di Maio che non partecipano alle trattative, non conoscono con anticipo le mosse, non sono interpellati.
È sull’altare della ragione strategico-politica che devono consacrare questa rabbia. L’effetto sorpresa necessario in questa partita a scacchi col Pd richiede riservatezza. Renzi ne fa buon uso: una volta si presenta all’incontro a sorpresa, la volta dopo lo disdice altrettanto improvvisamente. Effetto impossibile anticipando notizie al gruppo, dentro il quale figurano anche persone inaffidabili pronte a dettare alla stampa veri e propri verbali su informazioni interne, di nessun interesse per i cittadini ma utili agli avversari. La politica nella fase delle trattative, più che in quella dell’opposizione, è strategia. Servono libertà d’azione e decisionale sul momento. Impossibile dovendo condividere ogni piccola scelta col gruppo.
I punti principali sono scritti e decisi online; l’obiettivo è condiviso: dialogare col Pd per le riforme. Per il resto, che non si parli di invidia e spallate. Se condivide questo concetto l’intero gruppo dovrebbe dare fiducia e carta bianca a Di Maio. In questo caso la vittoria, se arriverà, sarà di tutti. Nel caso in cui invece il Movimento uscirà male da queste trattative… caro Di Maio, in bocca al lupo!