È un lavoro suonato con la passione e lo spirito cantautorale delle jam session tipiche dei Sixties: un disco principalmente acustico, tutto chitarre folk, contaminazioni rhythm & blues e vibrazioni psichedeliche “made in Usa”, che si sposano alla perfezione con la voce di Alessandro Battistini: “Ascolto principalmente musica anni Sessanta in quasi tutte le sue declinazioni, ma questo disco mi è stato ispirato da quel folk psichedelico che andava per la maggiore nella west coast in piena epoca hippie… pensavo a Crosby, Stills, Nash and Young, o ai Grateful Dead a Graham Parsons.
Credo che questo disco alla fine sia una miscela di folk e cosmic country… mi piace perché quando l’ho scritto non avevo in mente tanto un genere preciso quanto un approccio, un’attitudine un po’ jam/free. La cosa che ho sempre amato dei Sixties, è quel modo molto libero di suonare. Mi piacciono le improvvisazioni e la psichedelia perché, dal vivo, rendono ogni concerto diverso dall’altro e legano inevitabilmente la performance allo stato d’animo”.
Le canzoni, invece, parlano quasi tutte d’amore nelle sue varie sfumature e di viaggi, di nuove mete. Home, per esempio, è il viaggio verso casa di un irriducibile sognatore, uno dei protagonisti del disco che si muovono con mezzi impropri, come il galeone spaziale che compare sulla copertina. Anche The inner side parla di un viaggio, ma questa volta introspettivo, all’interno di una persona triste e infelice. La canzone dice che se si cerca bene, alla fine si trova sempre un po’ di luce. Nothing More to say invece è un’ode hippie all’amore per la natura e parla di come sia ancora possibile sentirsi parte di lei. Un debutto che fa ben sperare.