Ultimi ritocchi al progetto di riforma del Senato, che dovrebbe essere approvata in prima lettura in tempi brevi. Cosa cambia e cosa rimane ancora da chiarire. A partire dalla composizione dell’aula e dalle ricadute sui rapporti tra Stato ed enti territoriali. I riflessi sui vincoli europei.

di Massimo Bordignon* (lavoce.info)

Come sarà il nuovo Senato?

Con la presentazione dei venti emendamenti a firma congiunta Roberto Calderoli e Anna Finocchiaro, a meno di sorprese dell’ultima ora, il progetto di riforma del Senato dovrebbe avere ora i numeri per essere approvato (in prima lettura) già dalla prossima settimana. Ma di che si tratta esattamente? Il dibattito sui media è stato tutto incentrato sul superamento del bicameralismo perfetto; minore è stata invece l’attenzione sull’altro obiettivo della riforma, il ridisegno delle funzioni e dei rapporti tra governi. Da questo punto di vista, il nuovo testo sembra nel complesso convincente, anche se non mancano punti critici e perplessità.
Prendiamo per esempio il caso della eleggibilità dei senatori, su cui si concentrano gli scontri residui in Parlamento. È chiaro che se il nuovo Senato si occupasse di tutto, non avrebbe senso avere parlamentari di serie A (eletti dai cittadini) e parlamentari di serie B (eletti dai consigli regionali). Se invece – come prevede la proposta – si occupa solo delle funzioni svolte dagli enti territoriali, non ha senso che venga eletto direttamente dai cittadini ed è del tutto naturale invece che vi siedano solo rappresentanti di quest’ultimi.
Quali sono dunque le funzioni del nuovo Senato? Tolta la legislazione di rango costituzionale, su cui svolge una funzione di garanzia, mantenendo quindi un ruolo paritario con la Camera, sulla legislazione ordinaria il nuovo Senato ha solo una funzione consultiva. (1) Può esaminare le proposte di legge (se lo richiede un terzo dei senatori), ma il decisore finale è la Camera, che può benissimo non tenere conto dei suoi suggerimenti. Un ruolo importante ha invece sulle leggi che fanno riferimento alle materie sotto il diretto controllo degli enti territoriali; qui l’esame del Senato è obbligatorio e la Camera può discostarsi da quanto lì deciso solo a maggioranza assoluta dei suoi membri.
Si tratta nel complesso di un compromesso accettabile. L’elevata maggioranza necessaria per respingerne la proposta implica che, in condizioni normali, sia di fatto il Senato a decidere sulle materie di attinenza degli enti territoriali. D’altra parte, in condizioni di forte conflitto tra le due camere, la norma garantisce che il decisore finale sia comunque la Camera. Questo è importante perché altrimenti il Senato potrebbe approvare, per fare un esempio, leggi che implichino forti aumenti di spesa, quando poi il responsabile del bilancio è solo la Camera. In ogni caso, l’alternativa qui non è reintrodurre l’eleggibilità diretta dei senatori, ma casomai è quella di ridurre il ruolo del Senato a consultivo anche in queste materie. Senatori eletti, dunque dotati di un forte peso politico, ma non legati a un rapporto fiduciario con il governo, renderebbero davvero ingestibile l’attività del Parlamento. Rendere il Senato solo consultivo è naturalmente possibile, ma allora sarebbe forse meglio abolirlo del tutto, perché finirebbe con l’essere solo un doppione della conferenza Stato-Regioni.

La composizione del nuovo Senato

Sulla composizione del Senato, la proposta è invece più discutibile. Visto che sono le Regioni ad avere il potere legislativo, si capisce poco perché 21 posti dei 100 complessivi siano lasciati ai sindaci (uno per ciascuna Regione, oltretutto eletti dai consiglieri regionali). Tuttavia, in Italia i municipi hanno avuto storicamente un ruolo più importante delle Regioni e la composizione del Senato riflette un riequilibrio dei poteri tra i due livelli di governo che è già in essere. Più preoccupante è il fatto che i 74 senatori residui (5 sono di nomina presidenziale) siano distribuiti in modo da riflettere poco la popolazione, visto che c’è un numero minimo di seggi (tre) attribuito a ciascuna Regione (tranne Molise, Val D’Aosta e le province di Trento e Bolzano, che ne hanno uno ciascuno). Questo significa che le Regioni più popolose avranno pochi seggi in più di quelle più piccole. È vero che è quello che succede normalmente negli stati federali (nel Senato americano ogni stato ha due senatori, indipendentemente dalla popolazione), ma in quei casi accade perché la federazione si è formata come unione di stati sovrani e la rappresentanza uniforme serve appunto a garantire gli interessi degli stati. (2) Il rischio è che in Italia questa allocazione dei seggi conduca a politiche distorte a favore delle Regioni più piccole (come puntualmente succede negli Usa), benché il fatto che il Senato si occupi solo di alcune materie dovrebbe ridurne i pericoli.

Il contenzioso costituzionale

Ma perché mai gli enti territoriali dovrebbero avere un ruolo diretto nella formazione delle leggi sulle materie che li riguardano? Soprattutto, per evitare il pasticcio che si è creato con la riforma del Titolo V del 2001 che ha dato competenze legislative concorrenti alle Regioni su un vastissimo ambito di materie, con l’effetto di creare un gigantesco contenzioso di fronte alla Corte Costituzionale. In teoria, nelle funzioni concorrenti, allo Stato spettano i principi generali e alle Regioni la legislazione di dettaglio. Ma siccome nessuno ha mai capito cosa fossero i primi e cosa fossero le seconde, il conflitto di competenze è risultato inevitabile.
Non si tratta di un problema di second’ordine, anche da un punto di vista strettamente economico. La moltiplicazione delle leggi ha generato costi crescenti per la collettività; e l’incertezza su quale legislazione fosse in vigore, se regionale o nazionale, è stata di forte ostacolo all’attività economica. Il fatto che le Regioni stesse siano ora coinvolte nella elaborazione delle leggi che le riguardano, e che l’area delle funzioni loro attribuite venga ridotta, dovrebbe servire a depotenziare il contenzioso costituzionale. Non solo ma, opportunatamente, la nuova Costituzione reintroduce la possibilità dello Stato di legiferare sulle materie non di sua competenza quando è in gioco “l’interesse nazionale”, espressione che può significare tutto o nulla, ma che dovrebbe di nuovo scoraggiare il contenzioso costituzionale, dando automaticamente una preminenza alla legislazione nazionale in caso di conflitto.

I rapporti Stato-Regioni

E che cosa fanno le nuove Regioni? Intanto, nella nuova costituzione scompare la distinzione tra funzioni concorrenti ed esclusive. Tutte le funzioni sono esclusive o dello Stato o delle Regioni, tuttavia con il correttivo che lo Stato può legiferare anche nelle materie delle Regioni nel caso, appunto, che sia in ballo l’“interesse nazionale”. La nuova costituzione inoltre dimagrisce le funzioni delle Regioni. Molte di quelle improprie (energia, banche, reti infrastrutturali, etc.) ritornano allo Stato mentre rimangono alle Regioni solo quelle più direttamente collegate al territorio (programmazione del territorio, organizzazione dei servizi sanitari e dell’istruzione, reti di trasporto locale, beni culturali, ambiente, eccetera). Restano numerose ambiguità, ma lo sforzo di semplificazione in questo campo è innegabile.
Eccetto che per togliere la parola “province” (come del resto accade ovunque nel nuovo testo costituzionale) la nuova Costituzione non tocca invece l’articolo 119, che descrive i rapporti finanziari tra governi. È un male, perché quell’articolo si è mostrato ingestibile, soprattutto nella parte che disponeva che i trasferimenti agli enti territoriali potessero essere solo di tipo perequativo. Questo ha costretto il legislatore (nei decreti delegati attuativi della legge delega del 2009) a inventarsi compartecipazioni inesistenti a vari tributi regionali o nazionali per garantire comunque i trasferimenti attuali, complicando ulteriormente e inutilmente i rapporti finanziari tra governi.

Il fiscal compact

Infine, un problema importante che resta aperto è quello del rapporto tra la nuova articolazione dei poteri e i vincoli europei, come introdotti nella nostra legislazione dal nuovo articolo 81 e dalla successiva “legge rafforzata”. Quest’ultima implica per i governi territoriali il mantenimento dell’equilibrio di bilancio, non consentendo cioè il finanziamento con debito neppure degli investimenti. Un bel problema, visto che gli enti territoriali generalmente sono responsabili per oltre due terzi degli investimenti pubblici e visto che a seguito della crisi gli investimenti si sono più che dimezzati. La legge rafforzata lascia comunque un’apertura: il rispetto dell’equilibrio di bilancio è a livello regionale, per tutti gli enti che incidono sul territorio regionale, compresa la Regione stessa. Questo significa che il comune A può accendere un debito nell’anno t per finanziare un investimento, purché un altro comune B sia in surplus nell’anno t e sia disponibile a mettere il suo surplus a disposizione di A. Naturalmente, B sarà disponibile a farlo solo se si aspetta di poter avere indietro il suo surplus (magari con un interesse) da A o da qualche altro comune, qualora dovesse servigli. Nella legge rafforzata l’ente che dovrebbe garantire questi “contratti” tra comuni è la Regione. Ma l’oggettivo indebolimento delle Regioni nel nuovo modello costituzionale insieme al fatto che ancora una volta la finanza locale (cioè la gestione dei trasferimenti agli enti locali) non sia stata attribuita alle Regioni, rende estremamente difficile la possibilità di svolgere questo ruolo. Del resto, la solidarietà orizzontale tra enti è già prevista per legge ordinaria e non ha mai funzionato. Ancora più difficile possa farlo in futuro con la nuova costituzione. (3)

(1) La legislazione di rango costituzionale include naturalmente anche l’articolo 81 sui vincoli di bilancio. Se la Camera propone una revisione del fiscal compact, ha bisogno anche del voto del Senato.
(2) Anche nel Bundesrat tedesco la rappresentanza è distorta a favore dei Länder più piccoli, ma in quel caso nel Senato sono rappresentati gli esecutivi regionali (con vincolo di voto conforme per ciascun senatore appartenente allo stesso Land), non consiglieri di diverso orientamento politico per regione, come nel caso italiano.
(3) Il nuovo testo mostra comprensione del problema quando cita, tra le competenze delle Regioni, quella “di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica”. Tutta da vedere la possibilità che queste intese si possano stipulare, in assenza di un potere regolativo proprio delle regioni nei confronti dei propri enti sub-regionali.

*Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e all’Universita Cattolica di Milano. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso quest’ultima Università, dove dirige anche l’Istituto di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. Redattore de lavoce.info.
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