Fateci caso. Quando un amico o un conoscente vi parla di qualcosa a cui non avete partecipato, invece di descrivere luoghi, raccontare profumi, ricordare sapori, nove su dieci tira fuori lo smartphone e mostra le foto oggetto della discussione.
Un effetto immediato, più semplice e veloce che non comporta l’uso della parola.
Ultimamente ho lavorato a stretto contatto con un gruppo di studenti americani di vent’anni. In classe, molti fotografavano col telefono la lezione scritta sulla lavagna o le fotocopie degli esercizi. Quando al mattino chiedevo loro notizie su cosa avessero fatto la sera prima, sul momento quasi nessuno ricordava i nomi dei posti dove erano stati o cosa avessero mangiato, ma prontamente tiravano fuori le le foto salvate nel telefono: un piatto, una bottiglia di vino, una vetrina.
La tecnologia memorizzava al posto loro.
Saremo anche noi, presto o tardi, destinati a racchiudere la nostra memoria storica e personale dentro un disco fisso? Osservo in spiaggia i molti turisti in vacanza, italiani ma anche tanti stranieri, tutti attaccati al loro apparecchio, incapaci di staccarsene.
Siamo una società che si nutre del visivo, incornicia il momento per riproporlo alla community privo di riflessione. La magia del mistero, la bellezza dell’ignoto, il sogno inafferrabile si spoglia per diventare accessibile certezza. L’incanto di una storia non può nulla contro il potere dell’immagine.
E pensare che c’era un tempo – non troppo tempo fa – quando si partiva per le vacanze con tre o quattro rullini nello zaino, viaggiatori squattrinati, e sulla strada si studiava con attenzione un’inquadratura, i giochi di ombre, le sfumature d’oro di un paesaggio. Solo dopo una placida valutazione si decideva di scattare la foto, sperando in un risultato decoroso che potesse rendere giustizia allo splendore che stava davanti. In certi posti era difficile perfino trovare i rullini e sviluppare le foto costava. Una volta tornati a casa, il primo rito era quello di andare dal fotografo di fiducia a depositare i rullini e attendere pazientemente per qualche giorno. Il giorno del ritiro, ci si trovava con l’amica o il moroso, per poter aprire il plico religiosamente insieme, e guai a imbrogliare sbirciando prima.
L’attesa era davvero croce e delizia.
Adesso possiedo una bella macchina digitale, quelle manuali riposano tutte nell’armadio, e raramente vado a riguardare le centinaia di foto – gratuite e poco memorabili – di viaggi o occasioni speciali. Non mi prendo nemmeno la briga di cancellare le foto più orrende, tanto il computer ne contiene a migliaia. Ma quando ho malinconia dei viaggi passati, scoperchio la cassapanca polverosa e riprendo i piccoli album fotografici e accarezzando la carta trasparente, quella dal rumore inconfondibile, tutto ritorna come prima. Toccando la foto, riesco ancora ad arrivare al cuore delle cose.
Che è un po’ la differenza tra leggere un libro sul Kindle e girarne le pagine dall’odore stantio.
E’ questione di gusto, per carità. E probabilmente fra una decina d’anni i miei figli proveranno una certa vergogna mista a compatimento per questa mamma, demodé ai loro occhi come sempre sono le mamme, ostinatamente attaccata ad un passato che non c’è più.
Non è detto che ieri si stava meglio, ma nemmeno che domani saremo tutti più furbi. Dicono che la tecnologia ha reso la vita più facile, ma siamo sicuri che l’iper semplificazione – del linguaggio, delle conversazioni, delle relazioni – ci abbia reso più felici? Fateci caso. La gente per strada cammina, è protesa in avanti, fissa il cellulare. Nulla li distoglie dal piccolo schermo saldo tra le mani. La vita scorre intorno ma non se ne curano.
Qualcosa più importante imbriglia l’attenzione. Che cosa, non si sa. Domani non se ne ricorderanno nemmeno più.