A tracciare il profilo è lo studio “Ricercarsi”, promosso da Flc Cgil e frutto dell'elaborazione dei dati del Miur, di un questionario online che ha coinvolto più di 1800 persone e di 40 interviste in atenei di tutta Italia. Oltre il 50 per cento non riesce a vedere un futuro lavorativo e oltre il 30 di chi lascia la carriera accademica rimane disoccupato
Precariato, incertezza sul futuro, diritti negati e dieci anni di sprechi. In sintesi, è questa la fotografia offerta dallo studio “Ricercarsi”, promosso da Flc Cgil, sui percorsi di vita e lavoro del precariato universitario e presentato durante Jobs Map, l’assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza. Un rapporto che fornisce un quadro generale della condizione dei ricercatori all’interno dell’università italiana, ma che mette anche in luce le conseguenze del precariato, che si riflettono non solo nella vita lavorativa, ma “anche in quella personale” di chi, nonostante le poche gratificazioni, continua ad essere un pilastro all’interno della realtà accademica italiana.
“Tutti pensano che il destino dei ricercatori italiani sia abbastanza grigio – spiega Francesco Vitucci, ricercatore in fisica e autore del documento insieme a Francesca Coin, Orazio Giancola, Claudio Riccio ed Emanuele Toscano – ma nessuno sa dire esattamente quanto. Per la prima volta un dossier scientifico, stilato coi metodi della ricerca sociale, lo spiega”. E in una scala cromatica, il grigio diventa sempre più scuro. “Attraverso i dati del Miur – continua – abbiamo ottenuto il numero degli assegnisti di ricerca e dei ricercatori a tempo determinato, che sono le figure più utilizzate nelle realtà accademiche. Abbiamo quindi i dati di quanti in dieci anni abbiano avuto un contratto precario nell’università. E i numeri sono allarmanti: si parla di circa 65.300 persone”.
Negli anni, poi, la situazione è peggiorata: “Dal 2003 il contingente strutturato delle università, a causa del taglio del turnover, è diminuito di circa il 10 per cento, mentre i contratti precari sono aumentati di circa il doppio, passando dai 18 mila del 2003 ai 31mila del 2013. In pratica c’è stata una sostituzione di lavoro stabile con lavoro precario”. Con poche speranze: in 10 anni solo il 6,7% si è visto stabilizzare. “E si parla di una stima ottimistica – confessa Vitucci – Si tratta infatti di un dato per eccesso. Questo vuol dire che potrebbe essere addirittura inferiore, ma non può essere superiore”. Con conseguenze paradossali: la media dei contratti firmati è del 6,2 per centro e addirittura il 10,4 per cento degli intervistati “afferma di aver avuto tra i 13 e i 31 contratti”.
I numeri e l’ identikit dei precari – La ricerca è frutto dell’elaborazione dei dati del Miur, di un questionario online che ha coinvolto più di 1800 persone e di 40 interviste in atenei di tutta Italia. E proprio grazie alle risposte di chi ha partecipato si è riusciti a tracciare una sorta di ‘identikit della precarietà’: che comprende un 50,8 per cento di titolari di assegno di ricerca, un 18,7 per cento con contratto parasubordinato, un 12,6 per cento che svolge un dottorato e un 11,9 per cento con contratto a tempo determinato contro solo il 6% indeterminato. Di questi, il 60 per cento dichiara di aver svolto “qualche volta e spesso lavori non retribuiti”. A sorpresa, poi, la maggior parte degli intervistati proviene da una formazione scientifica (29,7 per cento laurea scientifica, 25% umanistica e 24,1 socioeconomica). Il dato che forse colpisce di più, però, è quello anagrafico: l’età media è di 35 anni. “Un’età molto alta per essere precario – ammette Vitucci – con gravi conseguenze dal punto di vista personale”, che si riflettono nell’impossibilità di pianificare un futuro in autonomia: il 17,4 per cento, infatti, rivela di abitare ancora con la famiglia, e anche se la maggior parte (il 52,5 per cento) vive in situazioni di convivenza di coppia, il 73,1% non ha figli.
Gli ‘espulsi’ – La pazienza, però, ha un limite. E così molti si arrendono e lasciano il mondo accademico. La maggior parte di questi proprio a causa “del mancato rinnovo del contratto”. Ma la vita fuori dall’università spesso non sorride e il 34,4 per cento di chi abbandona rimane disoccupato. Eppure si parla di personale specializzato: il 73 per cento degli intervistati è infatti in possesso di un dottorato, molti hanno avuto anche esperienze accademiche e lavorative all’estero. Ma soprattutto, da segnalare, c’è il fatto che tra coloro che dopo anni decidono di continuare a lavorare da precari nell’università, sono pochi quelli che hanno un genitore senza occupazione, che evidentemente può aiutarli dal punto di vista economico.
Aspettative – L’instabilità occupazionale spesso poi fa diventare precari anche nell’anima. Chi guarda avanti di 10 anni vede nero: il 53,2 per cento, infatti, in questo momento “non riesce ad immaginare il proprio futuro lavorativo”. Solo il 7,6 per cento afferma di vedere risvolti positivi e che “entrerà di ruolo”, mentre il 9% si vede su un aereo per l’estero.
Mobilitazione – Le cause di questa situazione vanno ricercate sotto vari aspetti: “La riforma Gelmini, il blocco del turnover, la mancanza di concorsi pubblici, il definanziamento della scuola, dell’università e della ricerca pubblica”, spiega Claudia Pratelli del centro nazionale della Flc Cgil. Ma i precari non si arrendono, e promettono battaglia. “Questo è stato il decennio della disgrazia dell’università italiana – continua – Noi vogliamo sì prendere coscienza dei numeri dello scandalo, ma vogliamo anche far partire un’agenda di mobilitazione per i prossimi mesi. Le condizioni in tutti i comparti pubblici della conoscenza sono esasperate e noi abbiamo intenzione di sfidare il governo Renzi rispetto a un piano di stabilizzazione e all’introduzione di diritti e tutele per tutte le tipologie contrattuali. Sarà un autunno caldo”. Questa è la promessa, in attesa che il governo raccolga la sfida.