A Palazzo Chigi circola un piano per la costruzione ex novo di un’infrastruttura di nuova generazione di proprietà dello Stato. A cui avrebbero accesso a parità di condizioni tutti gli operatori delle tlc. Mentre nel capitale potrebbero entrare fondi italiani e stranieri e la Cassa depositi e prestiti. C'è però un nodo politico difficile da superare: la rete Telecom è la principale garanzia del debito della società nei confronti delle banche. Un "concorrente" pubblico sarebbe quindi sgradito
Mentre in Laguna sta per chiudersi, senza grosse novità, il Digital Venice, evento promosso dal governo italiano sui temi del digitale, a Palazzo Chigi, sotto silenzio, circola un piano per la costruzione ex novo di una nuova rete pubblica in fibra ottica spenta. E cioè un’infrastruttura di proprietà dello Stato, ma “messa a disposizione, a parità di condizione tecniche ed economiche”, di tutti gli operatori di telecomunicazioni. Grandi o piccoli che siano. Per di più senza costi per i cittadini, un forte impatto occupazionale e la prospettiva per il governo Renzi di centrare gli obiettivi 2020 indicati dall’Agenda digitale europea. Target che, con gli investimenti attualmente previsti, non sono realizzabili, come ha spiegato il report dell’ex commissario all’Agenda digitale Francesco Caio.
Il piano in questione si chiama “Rinascimento 2.0, Progetto iFon” e punta alla creazione di una società delle reti con almeno il 30% del capitale in mano allo Stato. Nella nuova azienda, sulla falsariga di quanto già proposto dell’Anci Toscana potranno confluire le reti in fibra delle municipalizzate, che ne diventeranno socie, e potranno entrare in quota minoritaria fondi infrastrutturali italiani o stranieri. Investitori finanziari che già oggi sono disponibili a mettere soldi nel progetto di una rete destinata a diventare un monopolio naturale pubblico paragonabile a quello di Terna e capace, a regime, di produrre più di 3 miliardi di incassi l’anno. Nella partita potrebbero giocare un ruolo chiave anche la Cassa depositi e prestiti o i fondi pensione integrativi che, come nelle idee della Cisl reti, potranno contribuire finanziariamente al progetto. A patto però che il governo societario sia trasparente. E’ esclusa invece la partecipazione nel capitale della società delle reti di gruppi delle telecomunicazioni, perché la presenza nell’azionariato solo di alcuni operatori finirebbe, gioco forza, con il falsare le regole della libera concorrenza. Riducendo il beneficio economico in termini di minori prezzi dei servizi di connessione per cittadini e imprese.
Quanto ai numeri, il Progetto iFon dimostra con un piano finanziario pluriennale che la costruzione ex novo di una rete pubblica in fibra è possibile. Nell’ipotesi più conservativa del piano, quella di un fatturato pari a zero nel primo anno di attività (senza quindi valutare l’apporto eventuale delle multiutility), l’azienda dovrà investire al massimo 19 miliardi su vent’anni anni, un arco temporale breve per il mondo delle infrastrutture, nel quale l’orizzonte va di solito tra i 20 e i 40 anni. Gli investimenti, sempre in base alle stime del progetto, porteranno subito un vantaggio all’economia con l’assunzione di 4-6mila dipendenti e l’avvio dei cantieri per gli scavi necessari a posare la fibra. L’ipotesi è che la nuova società delle reti avrà un margine positivo già dal quinto anno e ripagherà gli investimenti a partire dal tredicesimo esercizio producendo quasi tre miliardi di fatturato. Tutto questa sulla base di un prezzo di 12 euro al mese per abitazione, contro i 9 del doppino di rame di Telecom, che fa un totale di 2,6 miliardi l’anno.
Insomma, quello a cui ha contribuito Simone Bonannini, ad di Interoute (gruppo europeo delle telecomunicazioni proprietario di una rete in fibra sulla dorsale di estensione nazionale), è un progetto molto ambizioso. Che, per via dell’importante impatto economico e sociale, apre alla necessità di un ampio dibattito. Magari in streaming. Anche perché le nuove sfide dell’economia digitale già bussano alla porta del Paese: dalla moneta elettronica con i Pos obbligatori alla digitalizzazione della pubblica amministrazione fino alla veloce diffusione di Smart tv.
Ma allora perché il governo non parte subito con la costruzione ex novo di una rete a banda ultralarga? Palazzo Chigi interpellato in merito al piano non ha voluto commentare, mentre il viceministro dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, fa sapere per bocca del suo portavoce che: “Non conosciamo questo piano, dev’essere davvero molto riservato. Le linee su cui si muove il governo sono note e puntano a sviluppare la banda larga e ultralarga sulla rete esistente, sia attraverso norme da inserire nel nuovo decreto sblocca-Italia (per esempio obbligo dei nuovi edifici “broadband ready”), sia attraverso l’impiego dei fondi europei da parte delle regioni e l’esclusione dai vincoli del patto di stabilità degli investimenti sul digitale, come annunciato da Matteo Renzi a Digital Venice”.
Va ricordato, in ogni caso che sul futuro delle telecomunicazioni italiane c’è un’eredità pesante: la rete di Telecom Italia, privatizzata negli anni ’90 sottraendo allo Stato di un asset strategico come di recente ha ricordato in una mozione il Movimento 5 Stelle. Quel network in rame e fibra rappresenta oggi la principale garanzia dell’imponente debito della società (26 miliardi), generato in buona parte da operazioni finanziarie a leva che hanno portato ad un progressivo spolpamento dell’azienda. Ed è quindi molto importante per gli istituti creditori che, sottoposti ai nuovi pesanti vincoli di bilancio imposti dalle regole di Basilea, sono obbligati a rientrare di buona parte dei finanziamenti concessi alle imprese. Un’eventuale cessione della rete di Telecom potrebbe infatti abbattere notevolmente il debito del gruppo guidato da Marco Patuano e consentire alle banche creditrici di ridurne il peso in bilancio.
Dal canto suo l’ex monopolista, interessato a un maggior equilibrio finanziario dei conti, è disposto a cedere la sua rete solo a caro prezzo. E a patto di entrare in una società delle reti assieme ad altri operatori creando di fatto un oligopolio in cui potrebbe entrare come partner finanziario anche la Cassa depositi e prestiti. Quest’ultima tuttavia vive una sorta di conflitto di interesse interno: la società, custode di 240 miliardi di risparmi postali degli italiani, è infatti controllata dal Tesoro, ma parte del suo capitale (il 18%) è in mano alle Fondazioni bancarie, anch’esse nel pieno di una profonda ristrutturazione finanziaria e grandi sponsor del presidente della Cdp, Franco Bassanini. Di qui la difficoltà politica di immaginare un grande progetto ex novo per la rete a banda ultralarga che rimetterebbe in carreggiata il Paese, ma probabilmente metterebbe in difficoltà Telecom e le sue banche creditrici.