Una volta Renzi si presentava come l’ariete di Pietro Ichino, il giuslavorista eletto quasi per sbaglio senatore del Pd che continuava a trovarsi in minoranza con le sue idee di contratto a tutele crescenti e superamento dell’articolo 18. Poi Ichino è passato a Scelta Civica, Renzi ha capito che per conquistare il Pd doveva sfidare le burocrazie sindacali ma conquistare il voto dei loro iscritti. E quindi addio alle promesse ai giovani precari e alle partite Iva e avanti con rassicurazioni a impiegati statali a fine carriera e insegnanti. Il ministro del Welfare Giuliano Poletti doveva essere il volto pacioso della rivoluzione renziana. Invece ora lo scopriamo uguale a tutti i suoi predecessori, a denunciare in apposite interviste che “manca un miliardo per la cassa integrazione“. Per forza: il governo non ha neppure cominciato a riformare gli ammortizzatori sociali e quindi le Regioni continuano a presentare le loro discutibili richieste di fondi per la cassa integrazione in deroga (che, come dice il nome, dovrebbe essere una misura tampone, non strutturale).
Certo, il contesto non aiuta: il progetto di Garanzia Giovani voluto dal governo Letta (e rivendicato da quello Renzi) non sta funzionando bene, le agenzie per l’impiego mettono in contatto domanda e offerta di lavoro, ma a fronte di 110 mila candidature le imprese hanno da riempire solo 4mila posti. Pochini. La Commissione europea continua a sollecitare il governo a fare un bilancio della riforma Fornero: se la revisione dell’articolo 18 non ha dato i risultati sperati, perché i licenziamenti più facili non hanno fatto aumentare investimenti e assunzioni, bisogna intervenire ancora. Ma il Renzi rottamatore è diverso da quello di governo. Da premier ha capito che il lavoro è un tema che è meglio evocare piuttosto che affrontare, sperando che la Bce, la buona sorte, l’inversione del ciclo economico, migliorino un po’ le statistiche sull’occupazione. Il governo potrà comunque prendersene il merito.
Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2014