Il presidente del Senato si è presentato nell'aula bunker dell'Ucciardone di Palermo per deporre. L'ex capo della Dna: "Da me mai interferenze. Nessuno mi chiese avocazione dell'indagine". E ancora: "Stupito di non essere parte offesa"
“Tormentato, sconvolto, quasi perseguitato”. Così si sentiva Nicola Mancino già alla fine del 2011, quando la procura di Palermo lo chiama per interrogarlo come teste nell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. A raccontare lo condizione psicologica di Mancino, deponendo davanti la corte d’Assise di Palermo, è Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato. “Avevo incontrato il senatore Mancino durante la cerimonia di auguri natalizi al presidente della Repubblica, nel dicembre del 2011” ha raccontato la seconda carica dello Stato, interrogato all’aula bunker del carcere Ucciardone direttamente dal procuratore capo Francesco Messineo, e dai pm Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia. “In quella occasione – ha continuato Grasso – mentre eravamo al guardaroba in attesa dei nostri soprabiti, Mancino mi apostrofò dicendo che si sentiva perseguitato dalle indagini: ‘Qualcosa lei deve fare’, mi disse. Risposi che l’unico modo era il potere di avocazione, ma non c’erano i presupposti”.
L’ex capo della Dna, citato dai pm, ha dovuto testimoniare – si legge nell’articolato di prova – “sulle richieste provenienti dall’ex ministro Mancino per l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e o il coordinamento investigativo delle Procure interessate”. Sia il presidente della corte d’assise che la procura di Palermo e le difese hanno ringraziato Grasso per aver rinunciato alle prerogative di Palazzo Madama e di aver accettato di deporre. “Io sono qui per esigenze di verità e giustizia”, ha risposto. La vicenda è quella venuta fuori dalle intercettazioni effettuate dai pm sulle utenze telefoniche di Mancino che, nel processo, è accusato di falsa testimonianza. Dalle indagini emersero le sollecitazioni fatte dall’ex politico Dc a Grasso, all’epoca capo della Dna, direttamente e per il tramite dell’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, perché esercitasse i poteri di coordinamento, riconosciuti alla procura nazionale antimafia, in merito alle inchieste condotte dai tre uffici sul presunto patto Stato-mafia.
Nel dicembre del 2011, secondo quanto emerso dalla testimonianza di Grasso, Mancino non è ancora indagato dalla procura di Palermo, ma a Grasso appare come “una persona tormentata dal punto di vista psicologico, si sentiva quasi perseguitato”. E infatti, come documentano le intercettazioni della Dia di Palermo, è in quel momento che l’ex vicepresidente del Csm inizia a tempestare di telefonate Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale poi deceduto nell’estate del 2012. Ed è lo stesso D’Ambrosio che poi riferisce a Grasso delle lamentele di Mancino. “Certamente – ha spiegato Grasso – parlai con D’Ambrosio, a Roma, forse ad una lezione alla Luiss per un incontro con gli studenti, e lui mi rappresentò le lamentele reiterate ricevute dal senatore Mancino che si sentiva appunto perseguitato”. Poi, nel febbraio del 2012, Mancino depone al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu: ed è da quel momento che finisce indagato per falsa testimonianza, reato di cui è chiamato a rispondere nel processo sulla Trattativa.
Nell’aprile del 2012, poi, lo stesso Grasso viene chiamato dal nuovo procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani, appena insediatosi al posto di Vitaliano Esposito. “Nel corso dell’incontro – ha raccontato il presidente di Palazzo Madama – parlammo delle indagini sulla trattativa e dei problemi derivati dalla necessità di un’unità di indirizzo da parte delle procure che stavano conducendo inchieste che avevano punti in comune. Sul tavolo della riunione – ha proseguito – c’era anche una lettera del segretario generale del Quirinale Donato Marra al procuratore generale a cui era stata allegata una missiva del senatore Mancino alla presidenza della Repubblica: non venne letta la lettera di Mancino, ma era chiaro che contenesse le lamentele in merito al mancato coordinamento delle indagini delle procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta. In particolare si lamentava una diversità d’indirizzo: per Caltanissetta i politici erano estranei a colpe, mentre le altre procure ipotizzavano condotte penalmente rilevanti. Spiegai a Ciani che non avevo ravvisato violazioni dopo le direttive che avevo dato nel 2011”.
Durante la deposizione, il presidente del Senato ha anche ribadito di non aver mai fatto nessuna interferenza: “Mi si può dare atto che nessuna interferenza c’è mai stata da parte mia”. E il Procuratore di Palermo, Francesco Messineo, che conduceva l’interrogatorio ha ribattuto: “Presidente, nessuno lo ha mai lontanamente ipotizzato”. E così Grasso: “Lo dico per essere chiari…”. Alla fine della sua deposizione, ha anche sottolineato di essersi atteso un ruolo diverso all’interno del processo. “Pensavo di poter essere citato non solo come teste ma anche come persona offesa, dato che qui qualcuno ha detto che bisognava dare un colpetto per proseguire la trattativa. Poiché si dice che nell’autunno ’92 si voleva un altro colpetto per ravvivare la fiamma della Trattativa, e quel colpetto era la mia eliminazione io pensavo di poter essere citato come persona offesa. Per fortuna poi per problemi di telecomandi non andò in porto, ma la mia era solamente una piccola notazione”. Pronta la replica del procuratore Messineo. “Qui non celebriamo un processo per strage, eseguita o tentata, ma un processo per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato”. L’udienza è proseguita con l’esame di Donato Marra, il segretario generale del Quirinale autore della lettera in cui si “sponsorizzavano” le lamentele di Mancino.