Pietro Graziani, 38 anni, dopo una laurea e tante porte chiuse a Roma decide di inviare il curriculum a diverse società e tiene d’occhio le posizioni vacanti nelle ong e nei ministeri. E così si trova a lavorare dall'Amazzonia al Messico. "In Italia troppa rassegnazione e senso di inferiorità"
“Non puoi pretendere che le cose cambino, se continui a fare le stesse cose”. Pietro Graziani, 38 anni, di Roma, ha capito che per fare carriera, “per vivere e non sopravvivere come in Italia”, avrebbe dovuto lui per primo rimboccarsi le maniche. La soluzione sta nel movimento. Meglio se intorno al mondo. Nel 2002, dopo una laurea in Scienze biologiche all’Università La Sapienza, si arruola come volontario nella Repubblica del Centrafrica per occuparsi di elefanti marini. Due anni più tardi vola in Messico con una borsa di studio dell’università per fare ricerca sul campo. Una volta rientrato in Italia, nel 2006 fa domanda per un posto da consulente a Capo Verde nell’ambito del programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). Nel frattempo, sapendo che dopo due anni sarebbe scaduto il contratto e avrebbe fatto rientro a Roma, si inserisce nella graduatoria per supplenti e all’inizio dell’anno scolastico viene selezionato.
“Per un anno e mezzo ho insegnato biologia, fisica, chimica e geografia astronomica in un liceo”, spiega Pietro. Fare il professore è solo un’attività transitoria e non certo il lavoro che ha pensato per la sua vita. Così continua la ricerca. Invia il curriculum a diverse società e tiene d’occhio le posizioni vacanti nelle ong e nei ministeri. Appena si presenta l’occasione buona si rimette in gioco. È il 2010, Pietro è diretto in Ecuador come project manager con un bando del ministero degli Affari esteri: “Mi sono occupato della conservazione delle risorse naturali in una comunità di indigeni nell’Amazzonia”. L’anno successivo vince un concorso europeo, sempre in Ecuador, che riguarda la gestione dei rifiuti. “L’obiettivo era migliorare il sistema della discarica e sensibilizzare i cittadini a uno stile di vita ecosostenibile con campagne di educazione e corsi di formazione”. Oggi è di base a Quito, parla cinque lingue (inglese, francese, spagnolo, portoghese, oltre all’italiano), dà lezioni al Politecnico di Riobamba, a 150 chilometri dalla capitale, si è comprato un appartamento, e da aprile 2013 fa il consulente ambientale per l’Unione europea in Ecuador e nel resto del mondo. “Mi hanno spedito un paio di settimane alle isole Comore e in Congo finora”, dice.
In Italia non avrebbe potuto raggiungere gli stessi traguardi. All’inizio infatti Pietro prova a darsi da fare a Roma ma gli danno picche. “Avevo mandato il curriculum a decine di società di consulenza attive a livello internazionale. Ogni volta mi dicevano che cercavano gente con dieci anni di esperienza e non potevano prendermi”. Le cose non vanno meglio neanche quando si fa le ossa. “Quando sono rientrato a Roma dopo aver lavorato per l’Onu, mi sono ripresentato con il cv in mano ma in quel caso ero troppo qualificato. Insomma, in Italia o sei nessuno o sei troppo”. Un altro vizio è quello di non rispondere. “Spesso inviavo domande di lavoro che cadevano nel vuoto. Dagli Stati Uniti mi hanno mandato perfino una lettera cartacea, anche solo per avvisarmi che non erano interessati”.
Pietro spezza una lancia a favore degli italiani. “Soffriamo di sindrome di inferiorità rispetto agli stranieri ma non dovremmo”. Spiega perché: “È vero, gli stranieri a 25 anni sanno l’inglese perfettamente e hanno già molta pratica alle spalle. Ma all’estero gli italiani sono più apprezzati per l’approccio collaborativo, lo spirito di squadra, la capacità di ascoltare la gente del posto e di coinvolgerla nei progetti. Ho lavorato con molti inglesi: loro ti dicono come si fa una cosa senza considerare le esigenze dei locali”. Fa un esempio. “A Capo Verde il collega inglese, anziché imparare il portoghese, si rivolgeva nella sua lingua agli abitanti dell’isola senza che questi lo capissero. Ma a lui non importava granché. Stavamo progettando delle strutture eco-turistiche per il parco nazionale. Lui ha pianificato le aree senza tener conto delle difficoltà oggettive segnalate dagli abitanti: ‘o così o niente’, diceva”. Ma lui ci ritornerebbe nell’amata patria? “Roma mi manca da morire”. Ma: “Una cosa che mi ha allontanato ancora di più dall’idea di tornare è la rassegnazione diffusa della gente”.
Ogni volta che parla con amici e fratelli rimane deluso. “Mi dicono ‘eh, qui funziona così, cosa possiamo farci?’. Io invece penso che non bisogni dare per scontato che tutto debba andare per forza a rotoli. Se ci convinciamo di questo, siamo noi i primi a boicottare la nostra vita”. Pietro l’ha capito sulla sua pelle. “Dopo l’esperienza in Messico mi sono trovato con le mani in mano. Pur di fare qualcosa, ho fatto qualsiasi cosa: sei mesi alle poste, il bell boy all’Hilton e il commis di sala in un ristorante. Se cerchi, trovi. Non valgono scuse”.
Alla fine, da tutto quello che ha imparato è nato il libro “Ma dov’è il Centrafrica?” con la prefazione di Dacia Maraini. “È il primo di tre volumi in cui racconto i miei tre viaggi principali, quello in Centrafrica, in Messico e Amazzonia. Visto che parlo anche del parco nazionale dell’Abruzzo, terra natale dei nonni paterni, dove spendevo l’estate da bambino, ho chiesto alla scrittrice, appassionata di quelle zone, di presentare il testo”. Il 19 settembre è in programma la presentazione del libro a Roma. Ne seguirà un’altra a Milano. E lui farà soltanto una toccata e fuga.