In Medio Oriente, sul campo di battaglia, l’esito è sempre lo stesso da quarant’anni a questa parte: tutti sanno che a prevalere sarà Israele, ma tutti fanno finita di non vedere che schierarsi in guerra contro lo Stato ebraico è un metodo provato per raccogliere la simpatia della comunità internazionale.
Nessuno in questi giorni ha infatti scritto che è stata Hamas a rompere per prima l’atmosfera di relativa calma che nella regione si respirava dal novembre 2012. E lo ha fatto, se vogliamo, con una certa razionalità, consapevole che la reazione del governo Netanyahu gli sarebbe costata l’ennesima sconfitta sul terreno, ma anche l’ennesima vittoria all’interno dell’arena politica mondiale.
Dal 2006 ogni momento di tensione registrato nella regione, oltre a provocare numerose vittime (perlopiù palestinesi), è servito a restaurare la reputazione di tutte le milizie ultra-radicali presenti nella Striscia, ricollocandone gli sforzi dietro lo scudo di una falsa resistenza. Il punto è che Hamas vuole la distruzione dello Stato d’Israele ma non ha alcuna intenzione di vincere la sua battaglia. Se sa di perdere in partenza perché combatte? Per difendere chi, se in quasi dieci anni è riuscita solamente a trasformare Gaza in una gigante base missilistica?
Oggi sappiamo che quando Saddam Hussein ordinò il lancio di 39 missili Scud contro Israele durante la Guerra del Golfo non lo fece credendo di poter distruggere il popolo ebraico, ma nel tentativo di convincere i membri arabi della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ad abbandonare la guerra contro l’Iraq. E sappiamo che quando nel 2006 Hezbollah accese la miccia della seconda Guerra del Libano sferrando un attacco diversivo verso postazioni militari israeliane vicino alla costa e nei pressi del villaggio di confine di Zarit non nutriva mire espansionistiche; l’obiettivo era presentare l’Iran come il guardiano di tutti i musulmani nel mondo.
Sia chiaro, l’uso sproporzionato della forza da parte dell’esercito israeliano è fuori discussione, ma la realtà non si può ricostruire pesando, dall’una e dall’altra parte, il bilancio delle vittime. Chi considera Israele il frutto avvelenato di un peccato originale commette un errore smisurato. Perché credere che la barriera di separazione rappresenti, ad esempio, un atto illegittimo di segregazione spaziale non può esimerci dal riscontrare che la stessa “security fence” negli anni ha fortemente ridotto l’infiltrazione dei terroristi palestinesi nel territorio.
Se è vero che lo Stato ebraico, in palese violazione del diritto internazionale, continua ad avallare la costruzione di centinaia di insediamenti illegali a Gerusalemme est, è anche vero che dall’altra parte c’è pur sempre un’organizzazione terroristica pronta a compiere attacchi indiscriminati con l’esclusivo scopo di uccidere civili. Hamas esiste, e fino a quando la Fratellanza in Egitto era ancora libera di predicare i propri sermoni ha continuato a ricevere arsenali militari importati illegalmente da Teheran e Damasco, sotto la spinta di Hezbollah e la famiglia Assad.
Pensare che la demagogia di coloro che si battono per la difesa onnicomprensiva di Israele non superi la retorica di chi, al contempo, ricorre ad arringhe antimperialistiche intonando qua e là slogan a sostegno di un gruppo spietato di terroristi è uno sbaglio che può essere determinante nella valutazione del conflitto in Medio Oriente, poiché in questo modo si trasferisce il senso dello scontro israelo-palestinese su un livello non più umano e morale, ma politico. Quello in cui sarà impossibile concepire pacificamente l’istituzione di due popoli e due Stati, autonomi e indipendenti.
P.s. Nel mio ultimo post ho tentato rilevare delle incongruenze dietro l’uccisione dei tre giovani seminaristi ebrei e qualche imprenditore del terrore ha creduto bene di tacciarmi come uno pseudo-antisemita, come uno strumentalizzatore della morte. Niente di più falso, ma fa parte del gioco delle parti. Questa volta sono pronto a beccarmi anche l’etichettatura del sionista.