Le trattative tra Hamas e Israele passano ancora una volta per il Cairo. Il governo egiziano, messo da parte il silenzio dei primi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti e il categorico no all’apertura del valico di Rafah, mercoledì scorso ha deciso di tornare sui suoi passi: il valico è stato aperto, i primi feriti sono arrivati negli ospedali del Nord del Sinai mentre l’esercito egiziano inviava 500 tonnellate di aiuti alla popolazione della striscia di Gaza. L’apertura di Rafah ha coinciso con l’annuncio di colloqui del presidente egiziano Al Sisi con le diverse parti in conflitto allo scopo di “proteggere la popolazione palestinese”. Negli ultimi 6 giorni l’impegno del capo di stato egiziano è andato crescendo: diversi i colloqui telefonici, fra cui quelli con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, sino ad arrivare alla proposta di cessate il fuoco diramata ieri dal Ministero degli Esteri egiziano.
Così Al Sisi in questa ultima settimana ha dimostrato di voler emulare il suo predecessore Hosni Mubarak, non solo nella politica interna – portando avanti una delle repressioni contro tutte le forme di dissenso più dure della storia – ma anche negli affari esteri. L’ex rais era stato spesso criticato per la sua politica ambigua verso la questione palestinese e per aver aperto con il contagocce il valico di Rafah anche nei periodi di crisi. Allo stesso tempo, però, il conflitto israelo-palestinese era stato uno dei suoi trampolini diplomatici. Nel 1978, quando ancora era uno degli uomini più fidati dell’allora presidente Sadat, Mubarak aveva svolto un ruolo chiave nella mediazione per i negoziati di pace. Oggi sembra che Sisi voglia ripercorrere gli stessi passi ma al momento fra gli scogli più insormontabili ci sono l’ostilità e la poca fiducia di Hamas verso le autorità egiziane.
In Egitto, infatti, in poco meno di due anni il movimento di resistenza islamico è passato da “amico fidato” a “gruppo terroristico”. La parentesi della presidenza di Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani – cugini politici del movimento di resistenza palestinese – verrà probabilmente ricordata nella storia proprio per il successo diplomatico nella mediazione del cessate il fuoco del 2012. Come racconta l’analista Eric Trager in un lungo articolo su Business Insider, Morsi era già un punto di contatto tra Hamas e l’ufficio della Guida Suprema dei Fratelli Musulmani prima ancora di essere eletto presidente. Dopo la vittoria alle presidenziali due anni fa, Morsi aveva accolto diversi leader di Hamas al palazzo presidenziale, e uno dei membri del movimento palestinese, Abu Marzuk, suo amico personale, si era trasferito al Cairo.
La tregua raggiunta nel novembre del 2012 resta ancora una delle più durature e l’unico successo dell’amministrazione del presidente dei Fratelli Musulmani. Successo che ebbe ripercussioni anche sul piano interno: approfittando dell’accordo, il governo aveva spinto con un decreto presidenziale la nuova Costituzione dando inizio a una crisi politica da cui Morsi non sarebbe più stato in grado di risollevarsi. Alcuni giorni fa Adam Taylor sul Washington Post, in un articolo dal titolo “L’uomo di cui la crisi israelo-palestinese ha più bisogno? Mohammed Morsi”, ha sottolineato come il presidente islamista avesse fatto un “lavoro di mediazione sorprendente sostenendo, ovviamente, la popolazione palestinese e Hamas ma senza alienarsi le simpatie degli israeliani”.
Ora, però tutto è cambiato. Il governo egiziano con diverse operazioni militari in Sinai ha messo a dura prova una delle rendite più preziose del movimento palestinese, sopprimendo in maniera significativa il commercio nei tunnel clandestini che dalla penisola egiziana portano a Gaza. La sfiducia di Hamas è dunque ampiamente giustificata e questo, sul piano dei negoziati, sta creando non pochi problemi anche a Washington che al momento non ha nessun intermediario attendibile per trattare. Dall’altro lato Hamas è sempre più sola e, indebolita sia a livello politico che economico, al momento non sembra avere nessuna scelta se non quella di combattere.