Il trasferimento del quartier generale di Fiat-Chrysler in Olanda costerà all’Italia il 7,1% del Prodotto interno lordo. Tanto infatti vale il giro d’affari generato dal gruppo guidato da Sergio Marchionne secondo i calcoli del rapporto annuale sulle multinazionali di R&S Mediobanca. Dal quale emerge che senza il Lingotto il peso delle aziende globali sull’economia italiana scende dal 26,4% al 19,6 per cento. Contro, per esempio, il 57% del Regno Unito, dove Fiat si appresta a spostare la sua sede fiscale. Il trasloco da Torino ad Amsterdam, quindi, incide in maniera pesante sui dati macroeconomici del Paese. Proprio in una fase in cui le ultime rilevazioni dell’Istat smentiscono le previsioni di crescita del governo. Non solo: in base ai dati Mediobanca, l’Italia scivola in basso nella classifica europea del peso delle multinazionali di ogni Paese membro sul pil dell’Unione: la quota italiana, in particolare, crolla dal 7,5% al 5,5 per cento. Al vertice restano la Germania, che conta con le sue multinazionali per il 21,5% del pil europeo, la Gran Bretagna con il 24,4% e la Francia con il 15,3 per cento.
Secondo quanto rileva il rapporto, poi, le multinazionali italiane offrono in proporzione meno opportunità di lavoro ai cittadini della Penisola: in Francia e Germania rispettivamente 13 e 9 cittadini ogni 1000 abitanti lavorano in una multinazionale, mentre in Italia sono solo 3 su mille. Nonostante aumentino l’impiego di forza lavoro, infatti, assumono di più all’estero e così il numero medio degli occupati nelle corporations nella Penisola passa, sempre senza Fiat, da 49.924 occupati in media a 36.992.
Rispetto a Francia e Germania le multinazionali italiane hanno poi minore solidità finanziaria: i tedeschi, per esempio hanno il 38,7% di debiti finanziari, contro lo 0,2% nostrano. La produttività è in generale minore e il fatturato scende dell’1,5% nel 2013 senza Fiat-Chrysler. Stesso film per la redditività: il margine operativo netto della Penisola è del 5,2%, contro il 10% della Francia. La Germania è invece sempre in testa, in Europa, per solidità e produttività. Mentre nell’ultimo decennio, rispetto alle principali concorrenti europee, le multinazionali manifatturiere italiane hanno bruciato ricchezza per almeno venti punti rispetto a francesi e tedeschi, che hanno creato valore per i propri azionisti. Fiat, secondo lo studio, è cresciuta quasi esclusivamente grazie all’acquisizione di Chrysler, ma solo per dimensioni e vendite, mentre è arretrata in termini di redditività operativa.
Per quanto riguarda il modello proprietario prevalente, inoltre, secondo il report in Italia il 51,5% delle aziende multinazionali, alle quali cui fa capo il 55% del fatturato, è controllato dallo Stato. La percentuale salirà al 70% se Fiat confermerà lo spostamento della sede in Olanda. L’altro numero rilevante è quello delle multinazionali a conduzione familiare, che in Italia sono il 46,7%, mentre la media europea è del 26,3 per cento. Con l’uscita di Danieli e Riva per l’Ilva commissariata, nel 2012 le multinazionali da 16 diventano 14. Nel 2013 al primo posto c’è Eni con 114,7 miliardi di ricavi, seguita da Exor con 113,7 miliardi, Enel a 77,3 miliardi e a distanza tutte le altre.
In Europa, le multinazionali più grandi sono tedesche, con un numero medio di occupati che tocca i 140mila diepndenti. Continua, però, l’avanzata delle multinazionali asiatiche nel mondo, che superano per dimensione media da quest’anno le nordamericane. In generale, le multinazionali dei Paesi emergenti crescono più velocemente: oggi sono grandi circa il doppio rispetto a 9 anni fa e se mantenessero lo stesso ritmo, nel prossimo quinquennio le asiatiche diventerebbero le più grandi del mondo ed entro un ventennio anche le centro-sud americane supererebbero i giganti della triade Nord America-Europa-Giappone.