Dopo l’allarme lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità su una nuova impennata nei contagi da HIV, in particolare all’interno della comunità Lgbt, si è sollevato un interessante dibattito sul tema, che offre un’ inedita visibilità a questioni da troppo tempo marginalizzate nelle agende dei politici e di chi si occupa di comunicazione generalista. Un dibattito importante, quindi, che porta però con sè il rischio di farci compiere parecchi passi indietro se si cede alla lusinga dell’eccessiva semplificazione. Mi riferisco in particolare al post di Rosaria Iardino, assessore Pd della giunta milanese, che ieri, parlando di prevenzione del virus HIV, si scagliava contro il sesso “occasionale”. Una lettura pericolosa, che anziché darci utili strumenti di difesa ci rende a mio avviso ancora più vulnerabili. A tal proposito ospito con piacere in questo spazio la riflessione di Michele Breveglieri, segretario nazionale Arcigay e responsabile Salute dell’associazione. Buona lettura. (VB)

Sull’HIV in Italia e la vulnerabilità dei gay solo lacrime di coccodrillo, falsa coscienza e pochi fatti

In Italia una raccomandazione OMS, per quanto discutibile e relativamente attenta nel linguaggio, si è trasformata in un chiaro ritorno al passato: “popolazioni chiave” nel linguaggio OMS si è trasformato in Italia in“gruppi a rischio”. Mancavano solo dichiarazioni come quella sconcertante di Iardino sul Fattoquotidiano, sul sesso occasionale e i luoghi di incontro sessuale e la presunta “opposizione” tra terapie usate in chiave preventiva e preservativo. 

Intanto non esistono gruppi a rischio. Manca sempre, e chiediamoci perché, un “più” fondamentale in quell’espressione. Tutta la popolazione è a rischio indipendentemente dall’orientamento sessuale, ma alcune sotto-popolazioni sono più vulnerabili di altre per motivi diversi. Gli uomini che fanno sesso con uomini (gay e bisessuali maschi, per capirci) sono una di queste. E i dati, globali ed italiani, lo confermano. Le nuove infezioni tra i maschi omosessuali e bisessuali sono in aumento negli ultimi tre anni in Italia, ma non risulta affatto dai dati di sorveglianza nazionale un aumento tra i giovani gay. E’ vero semmai che i maschi omo-bisessuali che vivono con HIV sono mediamente più giovani rispetto agli etero, e in questo senso un rischio concreto di ulteriore propagazione in quella fascia di età c’è sicuramente.

La maggiore vulnerabilità c’è e ha aspetti diversi, alcuni dei quali non dipendono nemmeno dalle scelte comportamentali della persona. Aspetti statistici, perché una percentuale già alta di persone che vivono con HIV in una popolazione piccola aumenta le probabilità di esposizione al virus per ciascuno dei membri di quella popolazione. Aspetti biologici, perché il sesso anale di per sé è biologicamente più vulnerabile di altri tipi di rapporto sessuale in una scala graduale di trasmissibilità del virus per ogni singolo atto sessuale. Aspetti psico-sociali, perché è ampiamente dimostrato che l’omofobia sociale (l’ostilità verso i gay) e interiorizzata (la disistima che si ha verso se stessi perché omosessuali) diminuisce l’accesso al test HIV e favorisce comportamenti compulsivi e auto-distruttivi (si chiama “minority stress”). Per sintetizzare, mediamente un uomo gay deve fare uno sforzo di gestione del rischio e di “controllo” del proprio comportamento molto maggiore e persistente di un uomo etero per raggiungere lo stesso risultato di protezione in termini di riduzione del rischio, per ragioni che non dipendono nemmeno dal lui. Già solo per questo gli uomini che fanno sesso con uomini (etero, gay o bisex che siano) meriterebbero un po’ più di attenzione in termini di strategie di prevenzione condivisa tra associazioni e istituzioni. 

E invece il nulla. Vuoto spinto. Il totale menefreghismo e la totale mancanza di strategia delle istituzioni e di molte associazioni (per molto tempo anche la mia) sull’HIV tra i maschi omo-bisessuali ha una declinazione insidiosa e persistente in questo Paese, che sintetizzerei in quattro parole: omissione deliberata e pruderie criminale. Sul sesso e sull’HIV.

Arcigay è stata recentemente denunciata perché ha diffuso un volantino in cui si informa dettagliatamente sui rischi e i mezzi di prevenzione. C’è ancora chi riesce a definire “pornografia” un’immagine esplicativa su come indossare correttamente un preservativo. Di sesso, piacere e “safersex” non si riesce a parlare esplicitamente e nel dettaglio nelle campagne di prevenzione, e sicuramente non lo fanno le istituzioni. I soldi trasferiti alle regioni sull’HIV vanno a coprire sempre solo il terapeutico e mai la prevenzione, tantomeno quella mirata a chi ne ha più bisogno.

L’unico portale di informazione istituzionale nazionale sull’HIV è scandalosamente inadeguato e generico. Nei paesi civili i preservativi vengono comprati e distribuiti dallo Stato, in Italia si fatica anche solo a citarlo nelle campagne. Soldi pubblici alle associazioni per la prevenzione non arrivano, il poco stanziato se lo accaparrano enti di ricerca. La generale ignoranza sull’HIV alimenta discriminazione e fobie irrazionali verso le persone che vivono con HIV, persino nella comunità LGBT. Mentre in tutta Europa le associazioni offrono e gestiscono il test HIV in prima persona (strategie community-based), in Italia corporazioni, burocrazia e arretratezza normativa ostacolano o rallentano le strategie community-based. Non esiste una strategia ministeriale di lotta all’HIV, solo ricorrenti e inascoltati lamenti degli organismi consultivi ministeriali. 

La prevenzione oggi potrebbe avvalersi di strumenti diversi ed efficaci, e per questo infatti si chiama combinata: preservativo e lubrificante innanzitutto, che rimane un pilastro. Ma anche la terapia stessa per chi è già sieropositivo per ridurre quasi a zero la sua capacità infettiva, oppure la PrEP suggerita da OMS almeno in certe condizioni. Oppure la sistematica offerta di iniziative orientate alla riduzione dell’omofobia sociale e interiorizzata in chiave di promozione della salute. Si potrebbero moltiplicare i punti di accesso al test HIV consentendo alle associazioni e a chi è “interno” a quella comunità, e ne conosce modi e linguaggi, di gestirne direttamente l’offerta aiutando lo Stato in questo. 

Il messaggio chiave che dovrebbe passare in questo Paese non è che tutti i gay hanno bisogno della PrEP, cosa non vera (messa così) e comunque insostenibile, ma che la prevenzione per essere efficace si fa mirando ogni singola tecnica, strategia e comunicazione, dati alla mano, per individuare le soluzioni più giuste per ogni singolo profilo di rischio. Ad ognuno la sua, insomma, perché anche i maschi gay e bisessuali (come tutti) sono diversi tra loro per gradi di rischio. E lo si dovrebbe fare con il dialogo con le associazioni LGBT.

Invece ci troviamo a gestire il ritorno insidioso e sotto mentite spoglie dell’uso omofobico e sessuofobico dell’HIV: ovvero l’infezione raccontata più o meno inconsapevolmente come punizione per comportamenti libidinosi, antisociali e irresponsabili. Come trent’anni fa. Se lo Stato e le istituzioni (e la Iardino, che ha anche un ruolo istituzionale) hanno paura delle parole e delle realtà del sesso, diano almeno le risorse alle associazioni per occuparsene con i propri linguaggi e la propria capacità di penetrazione nella realtà. 

Altrimenti di che cosa stiamo parlando? Di scelta tra PrEP e preservativo? Di sincera preoccupazione per la salute dei gay? Ma fatemi un piacere… 

Michele Breveglieri

Segretario Nazionale Arcigay

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