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Tour de France 2014, tappa a Kristoff, Nibali sempre in giallo. E domani si sale

Il norvegese regola Peter Sagan in volata. Il ciclista siciliano controlla senza problemi. Domani a inizia il fine settimana sulle Alpi. Si arriva a Chamrousse, una bella arrampicata finale di 18,2 chilometri per una pendenza media del 7,3 per cento, dopo aver affrontato il Col de Plaquit

L’aperitivo delle Alpi di domani e sabato è una tappa d’attesa, forse la prima senza pathos di questo Tour dei Caduti. Poche storie da annotare, anzi una sola: l’addio scontato e triste di Andrew Talanski, lo stoico venticinquenne americano che ieri voleva abbandonare a una cinquantina di chilometri dal traguardo di Oyonnax, distrutto dai dolori alla schiena e alle gambe, frutto di tre cadute, la prima sul pavé, la seconda nella volata di Nancy, la terza sui Vosgi. Non si può dire che non si sia negato nulla…Era riuscito ad arrivare, nonostante le atroci sofferenze, entro il tempo massimo. Si è arreso stamattina. Perché averlo costretto a continuare in quelle condizioni?

Passiamo alla tappa. C’è stata la solita fuga. E l’altrettanto solita rimonta progressiva del gruppo che ripiglia i fuggitivi. Si sono ripetute le solite immancabili cadute, una delle quali manda a casa il povero spagnolo David De La Cruz (un nome, un destino) che stava nel gruppetto di testa: clavicola destra kaputt. È ruzzolato pure il velocista André Greipel, travolto da Sylvain Chavanel, a tre chilometri dall’arrivo di Saint-Etienne. Il tedesco era furibondo col francese, per aver perso lo sprint finale.

Già, perché tutto si è giocato con un lungo volatone, piuttosto confuso e altalenante. Peter Sagan, stavolta, aveva disposto il treno della Cannondale, per agguantare la vittoria tanto sospirata. È stato battuto dal norvegese Alexander Kristoff. Sagan dovrà superare le Alpi e i Pirenei per sperare in un successo. Ce la farà? Può anche fare un salto a Lourdes, non si sa mai, visto che nella diciottesima tappa da Pau ad Hautacam, poco prima dell’ultima salita, ad Ayros-Arbouix c’è il bivio per la città dei miracoli…

Domani iniziano le Alpi. Si arriva a Chamrousse, una bella arrampicata finale di 18,2 chilometri per una pendenza media del 7,3 per cento, dopo aver affrontato il Col de Plaquit, 14,1 chilometri di ascesa al 6,1% di media. È il 18 luglio, il giorno in cui ricorre il centenario della nascita di Gino Bartali. Vincenzo Nibali ha ricordato il grande campione più volte, nelle sue ultime conferenze stampa e nelle numerose interviste che competono alla maglia gialla. Non nasconde il desiderio di onorare la sua memoria con una grande prestazione. La storia del ciclismo si alimenta di questi episodi, di queste sfide che infiammano l’immaginazione degli appassionati. Nel giorno del suo compleanno, il 18 luglio del 1938 Bartali si impose nella tappa da Montpellier a Marsiglia, cominciando la rincorsa alla maglia gialla che stava ancora sulle spalle di Félicien Vervaecke. Fu sull’Izoard – salita in programma sabato – che l’italiano detronizzò il belga: “Riconosco la sua pedalata ascoltandone il suono”, disse lo sconfitto ma ammirato Vervaecke. Gino fece suo quel Tour, il primo. Erano anni difficili, l’Italia mussoliniana gonfiò il petto per questa impresa bartaliana – il Duce in persona aveva costretto Gino a disertare il Giro d’Italia per non rischiare la partecipazione al Tour – e molti gerarchi si precipitarono a Parigi per condividere il trionfo del campione italiano. Era consuetudine che il vincitore facesse un discorso al Parco dei Principi, dove si concludeva la corsa. Bartali elogiò il Tour, la sua organizzazione, il tifo dei francesi. Non citò mai Mussolini né si esibì in elogi del fascismo. Il regime non gradì. Al ritorno, alla stazione di Firenze non c’era un cane. Bartali non fu accolto alla stazione come in occasione degli altri grandi successi. I giornali ricevettero una velina in cui li si invitava ad ignorare qualsiasi notizia che riguardasse il campione, salvo i nudi bollettini sportivi.

L’avventura bellica del Duce finì come sappiamo, Il regime crollò. Bartali no. Vinse il Giro della Ricostruzione, quello del 1946. Aveva 34 anni quando si presentò al via del Tour 1948, coi francesi che non perdonavano agli italiani il “calcio dell’asino”, il vile attacco del 1940, l’occupazione di Nizza. Bartali corse male, aveva venti minuti di ritardo da Louison Bobet il giorno che un esaltato studente di destra, Antonio Pallante, sparò a Palmito Togliatti. La Dc aveva appena vinto le elezioni, travolgendo il fronte delle sinistre. C’era tensione, l’attentato l’acuì. Alcide De Gasperi temeva il peggio. Occorreva qualcosa che “distraesse gli italiani”. Una grande epica impresa. Il ciclismo era allora lo sport più popolare. La rivalità di Bartali e Coppi riempiva le pagine dei giornali, corredava i filmati della Settimana Incom, approdò persino nei fotoromanzi, la fabbrica dei sogni di quegli anni.

De Gasperi, racconta la leggenda – e lo hanno confermato gli storici – chiamò Bartali, il cui morale era sotto gli scarpini da ciclista. Voleva addirittura ritirarsi. De Gasperi lo consceva, era un suo estimatore. Lo rincuorò. Lo motivç: abbiamo bisogno del tuo aiuto. Cerca di vincere la tappa di domani. Cosa successe è noto: ci hanno fatto persino un film. Bartali vinse la tappa. Poi continuò a vincere. Anche il 18 luglio. Si regalò per l’anniversario la tappa da Aix-les-Bains a Losanna. E il secondo Tour, a dieci anni di distanza (nessuno ci è ancora riuscito). Gli animi in Italia si calmarono perché fu lo stesso Togliatti, dal letto d’ospedale che volle sapere cosa stesse combinando Ginettaccio. L’Italia di don Camillo e l’onorevole Peppone…