In zona Cesarini il gruppo pubblico dice sì all'operazione Etihad. Cioè dopo i 75 milioni del 2013 inietterà altre risorse nella compagnia di bandiera. Intanto però lo Stato starebbe studiando un nuovo ingresso nel capitale attraverso la Cdp. E l'intesa sugli esuberi, che prevede il ricollocamento di oltre 1000 dipendenti in altre aziende, suscita la rivolta della low-cost inglese: "Impensabile l'obbligo assunzione. E' contro ogni principio di libera impresa”
In extremis, l’ad di Poste Italiane Francesco Caio fa marcia indietro e accetta di investire ancora nel pozzo senza fondo di Alitalia. Una nota del gruppo pubblico informa infatti che Poste ha valutato “positivamente” l’operazione che passa attraverso l’accordo con Etihad. E ha deciso di aderire, firmando un impegno (“equity committment”) a versare 40 milioni di euro su un totale di 200 milioni che sono stati richiesti ai soci per coprire eventuali oneri legati a contenziosi o perdite della “vecchia Alitalia”. Il documento, sottoscritto anche dalle banche creditrici e azioniste Intesa e Unicredit, permetterà agli arabi di acquisire il 49% della compagnia senza rischiare brutte sorprese. Insomma: Poste torna a vestire i panni del cavaliere bianco. Di fatto mai dismessi da quando, nell’ottobre del 2013, il vettore ha avuto bisogno dell’ennesimo salvataggio in extremis e il gruppo pubblico, su impulso del governo Letta e del già allora ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, si è prestato partecipare all’aumento di capitale diventandone azionista con il 19,48% del capitale a fronte di un investimento di 75 milioni di euro. Suscitando le perplessità di Bruxelles. “Un elemento rilevante nella valutazione positiva”, si legge nella nota diffusa venerdì sera dal gruppo postale, “è stata la disponibilità di Etihad ed Alitalia a concordare con Poste Italiane un piano di collaborazione continuativo nel tempo, teso alla realizzazione di importanti sinergie industriali e commerciali, incrementali rispetto a quanto già individuato in passato con Alitalia”. Sinergie che “riguardano sia iniziative già definite puntualmente che altre individuate in questi ultimi giorni e che verranno sviluppate congiuntamente prima del closing”. In particolare “nelle aree della logistica, delle tecnologie It, delle carte e dei sistemi digitali di pagamento, della distribuzione di servizi a famiglie e imprese”.
Per quanto riguarda la logistica, sostiene la nota, Poste Italiane “ha avviato un piano di investimenti per migliorare la sua competitività nel settore dei pacchi e la prospettiva di un hub per le merci in Italia, con rotte internazionali di lungo raggio, è funzionale a questo obiettivo”. Questo a fronte dell’intenzione di investire sempre meno nelle attività tradizionali. Cioè la consegna della posta e il “servizio universale” per il quale il gruppo riceve consistenti rimborsi dallo Stato. Insomma: Caio, che nelle scorse settimane aveva tentato di mettere paletti sul ruolo di Poste nel futuro della compagnia, prefigurando addirittura la possibilità di un’uscita dal capitale, alla fine ha ceduto alle pressioni di Lupi e del governo Renzi. Intenzionato, dopo l’intesa sugli esuberi firmata senza la Cgil, a fare di tutto per far andare a buon fine la trattativa con gli emiratini. E dunque a spazzare via il principale intoppo sull’ultima parte del percorso che porterà alla firma definitiva. Ora sembra fatta. Anche se il via libera promette di scatenare polemiche politiche, visto che solo giovedì un gruppo di deputati M5S aveva diffidato dall’utilizzare Poste come “un bancomat” per ripianare ancora una volta le perdite di Alitalia. In più ci sono i dubbi di Bruxelles sugli aiuti di Stato. Ma secondo la nota “le modalità di partecipazione proposte dal gruppo Poste Italiane assicurano la tutela del nuovo investimento e la sua realizzazione secondo criteri improntati a logiche di mercato, rispettando le normative dell’Unione Europea e le prescrizioni degli organi di controllo”.
L’ipotesi alternativa: pressing sui piccoli azionisti – La giornata di venerdì si era aperta nel segno opposto. Sembrava, infatti, che Poste non fosse intenzionata ad aderire all’equity committment. Tanto che Il Sole 24 Ore ipotizzava una via d’uscita differente: la richiesta di maggiore impegno ai piccoli soci privati. A partire dal presidente dell’Atalanta Antonio Percassi, che l’anno scorso ha acquisito il 3,9% della compagnia per 15 milioni di euro. Questa scorciatoia, però, di fatto avrebbe chiamato in causa nuovamente la banca creditrice e principale azionista del vettore, Intesa Sanpaolo che è anche un grande finanziatore di Percassi. Il secondo candidato sarebbe stato invece l’industriale Davide Maccagnani, già proprietario di una fabbrica di esplosivi, socio della Cai con il 3,69% dopo l’ultima ricapitalizzazione. Un loro eventuale impegno, comunque, non sarebbe bastato per sostituire Poste.
E spunta il rientro dello Stato nel capitale attraverso Cdp – Mentre l’accordo con gli emiratini sembra sempre più vicino, già si prefigura la contropartita per le banche che hanno dato l’ok al taglio dei 560 milioni di debito e alla conversione di una parte in capitale. Secondo il quotidiano Repubblica, il Fondo strategico italiano controllato dalla Cassa depositi e prestiti sta infatti trattando dietro le quinte con governo e istituti. La Cassa, che fa capo per l’80% al ministero del Tesoro e gestisce 240 miliardi di risparmio postale dei cittadini italiani, potrebbe dare la propria disponibilità a comprare le quote in pancia alle banche. Il tutto solo a valle del risanamento della compagnia, visto che la Cdp è obbligata per legge a investire solo in aziende in utile. Dettagli: quel che è certo è che si tratterebbe dell’ennesimo ritorno dello Stato nel capitale del vettore di bandiera. Con i soldi dei risparmiatori.
EasyJet non vuole gli esuberi Alitalia: “Socializzare le perdite non fa bene a compagnie e consumatori” – Intanto però l’accordo raggiunto sugli esuberi, che prevede il ricollocamento in altre aziende di 1.021 lavoratori con l’intervento del governo, non manca di suscitare maldipancia tra i vertici dei gruppi “invitati” ad accollarsi una quota degli ex dipendenti Alitalia. “E’ impensabile prevedere un obbligo del genere da parte nostra”, ha fatto sapere Frances Ouseley, direttore per l’Italia di EasyJet, commentando le affermazioni di Vito Riggio, presidente dell’Enac (l’Ente nazionale per l’aviazione civile), secondo il quale le compagnie aeree che operano in Italia dovrebbero essere “obbligate a pescare” nella lista degli esuberi per le loro assunzioni future. “E’ sbalorditivo dovere constatare quanto affermazioni del genere siano lontane e contrarie ad ogni principio di libera impresa”, ha detto all’Ansa. Secondo Ouseley questo volere “socializzare le perdite di Alitalia non fa bene né alle compagnie aeree né ai consumatori”. Tutto questo “è sintomatico di una mentalità che continua a favorire soggetti che non generano profitti” e Easyjet, che impiega in Italia circa 1.000 persone, non “rinuncerà mai ai suoi processi di selezione, che prevedono certi requisiti, ai quali chiunque può partecipare”.
L’ad di Iag, che denunciò l’aiuto di Stato tramite Poste: “Alitalia in utile? Non basterà questo investimento” – Un altro velato attacco, per quanto ammorbidito dall’affermazione che “Etihad può rappresentare l’inizio di un nuovo capitolo per Alitalia”, arriva da Willie Walsh, ceo di Iag, che riunisce British Airways, Iberia e Vueling. Il manager, che nel 2013 ha denunciato come l’ingresso di Poste nel vettore configurasse un aiuto di Stato, intervistato dal Sole dice infatti di sperare che “la Commissione voglia valutare” quell’operazione. Come in effetti ha già annunciato di voler fare. E, alla domanda se la compagnia araba possa riportare Alitalia in utile, risponde secco: “Dipende se la società saprà cambiare: non fa profitti solo per il modo in cui è gestita. Non basta questo investimento per cambiare il corso di Alitalia”.
Contributo di solidarietà fino a 1.300 euro per comandanti senior e dirigenti – Venerdì sono stati resi noti anche i dettagli dell’accordo firmato da Filt Cgil e Fit Cisl sul contratto nazionale di settore. Accordo che prevede, già per il periodo luglio-dicembre 2014, un “contributo solidaristico” progressivo in base al reddito: da un minimo di 85 euro al mese per i lavoratori di terra a 300 euro euro mensili per hostess e steward, fino a oltre 1.300 euro per i comandanti più anziani e i dirigenti. In generale, chi riceve fino a 30mila euro lordi annui subirà una riduzione del 4%, mentre per la fascia dai 30mila ai 40mila euro la decurtazione sarà dell’8% e poi salirà al progredire degli scaglioni per arrivare al 17% del reddito annuale per i lavoratori con buste paga superiori ai 100mila euro. In base all’accordo, inoltre, al personale navigante non verrà corrisposta la tredicesima mensilità a dicembre. La maggior parte del personale di terra di Alitalia (che comprende impiegati, tecnici e addetti) percepisce però retribuzioni inferiori ai 20 mila euro e non sarà quindi colpita dai tagli.