E allora – invitandovi a leggere anche il post di Gianluca Arcopinto – torno sull’argomento con 10 punti e 10 domande.
per girare gli interni di casa Savastano, la produzione, affitta la casa di un boss di Torre Annunziata. Ai tanti che commentano “se giri in quel contesto, lo sai che paghi il pizzo”, suggerisco una riflessione ulteriore. Spegniamo il telecomando per un minuto, perché i telespettatori di Bolzano, Roma, Venezia o Palermo, immaginano che si tratti della casa di un boss di fantasia e, probabilmente, sono colpiti dal gusto pacchiano dell’arredamento. Riflettiamo invece su Torre Annunziata, sulla gente che invece conosce la verità, e sa che, nella realtà, questa è la vera casa di un vero boss di camorra, cioè di Francesco Gallo, classe 1976, arrestato dai carabinieri per associazione mafiosa. Arrestato – per di più – proprio nei giorni in cui la troupe registrava le scene. E la gente di Torre Annunziata sa che, per questa casa, il boss ha incassato 30mila euro dalla produzione.
Domanda: era proprio necessario affittare la casa da un boss del posto? È coerente con il progetto di Saviano oppure ne è la negazione?
Andiamo avanti con la riflessione: per ogni volta che il boss Pietro Savastano andrà in onda, per ogni ripresa che immortalerà questa casa in tv, il clan dei Pisielli e il suo capo acquisiranno punti importanti, a Torre Annunziata, nel personale share del consenso sociale. Contratto d’affitto e catering affidato alla sua famiglia: fare il camorrista conviene, questo è, secondo me, il messaggio che resta a Torre Annunziata e dintorni.
Domanda: è un messaggio costruttivo? Oppure – con meno ipocrisia – possiamo dire che, rispetto al successo, ai soldi, alla perfezione del prodotto, la ricaduta sulla gente di Torre Annunziata conta poco o niente?
Un passo in più: chi è il boss che affitta la casa, chi è il figlio di Zì Filuccio, al quale il produttore Matteo De Laurentiis dice: “Sono nelle sue mani”? É Francesco Gallo, e non è un camorrista di secondo piano: il suo clan – scrive il gip di Napoli Antonella Terzi – esercita il “monopolio dello spaccio nel Parco Penniniello”. La gip descrive la sua fazione come una “ala militare” dotata “di strumenti micidiali e sofisticatissimi di offesa”, “una falange armata, a vocazione stragista, moderna ed efficiente, una macchina di morte perfettamente oliata”. Prima del suo arresto – vogliamo crederlo – la produzione non sapeva di chi si trattasse. Ma dopo?
Perché, dopo il suo arresto, la produzione non ha fatto un passo indietro e non ha cambiato location? La risposta dei produttori – e alcuni commenti lo rilevano – è che, arrivata l’autorizzazione giudiziaria a proseguire le riprese, nella casa sotto sequestro, tutto rientrava nella legalità. Ma la legalità non è un fatto solo formale. E Gomorra lo insegna: è un fatto sostanziale. È un fatto culturale: perché continuare a girare le scene proprio lì?
Forse la maggior parte dei lettori lo ignora ma, a Torre Annunziata, esistono mamme che implorano i boss di assumere i figli come spacciatori, perché la paga di un pusher è 1.500 euro al mese più tredicesima. Non è fantasia, non è fiction: sono atti d’inchiesta. A Torre Annunziata, da anni, i giudici scrivono che “l’impresa della droga è una realtà aziendale”, che “per molti giovani è l’unica prospettiva di guadagno”, che “attorno al gruppo di camorra si crea una maestranza operosa, fedele e grata” ed “è la camorra a riscattare dal bisogno, e a procurarsi, così, impunità e consenso”. Era necessario filmare le scene di casa Savastano affittando la villa di un boss, attribuendogli, sul suo territorio, ulteriori motivi di consenso sociale? Può dirsi questa un’operazione culturale anti camorra?
Che senso ha suscitare sdegno verso la camorra a Milano o a Torino se poi, proprio dove la camorra è un impero, si trasmettono questi messaggi?
Tutto questo, già a settembre scorso, senza alcun’altra pretesa, se non quella di fare il cronista, chi vi scrive, lo denunciava su Il Fatto quotidiano. Nessuno fiatò. Nessuno. Dev’essere troppo grande il potere della fiction, e delle sue milionarie produzioni, perché qualcuno che abbia il potere di orientarne le scelte prenda la parola e dica: non sono d’accordo.
Domanda: è più importante concludere la fiction oppure restare coerenti con un reale messaggio anti camorra?
Oggi, sul Il Mattino, in un commento intitolato “la narrazione non si fa con la Camorra”, Pietro Gargano scrive: “Nessuno può dire: ‘non sapevo’, perché Il Fatto Quotidiano aveva rivelato la realtà tre giorni dopo la fine delle riprese e c’era tutto il tempo di rimediare. E invece, com’è scritto nei verbali, i dirigenti della produzione hanno scelto di fare false dichiarazioni o di tacere”.
Possiamo chiedere, oggi, che si smetta di tacere e chiunque abbia un peso nella cultura italiana prenda un posizione? A partire da Roberto Saviano?
Quando il clan chiede i soldi dell’affitto che invece, dopo il sequestro, la produzione deve pagare all’amministrazione giudiziaria, nel colloquio tra scenografo e location manager, si discute in questi termini: “Speriamo che glieli sbloccano … anche perché a regalarli allo Stato così a cazzo di cane… è meglio che se li prendono… Franco (ndr il capo clan Gallo Francesco) e i suoi …” “Si, si comprano un biliardo nuovo”.
Domanda: possiamo chiedere che la produzione si dissoci da frasi di questo tipo, che definiscono il sequestro di una casa un boss, e il pagamento del suo canone, un “regalo allo Stato a cazzo di cane”?
Quando Matteo De Laurentis parla con il padre di Francesco Gallo dei pentiti che l’hanno accusato, il produttore di Gomorra, sui collaboratori di giustizia, si esprime così: “E’ brutta gente! Questa è brutta gente!”.
Domanda: ma davvero Matteo De Laurentiis crede nel progetto anti-camorra di Saviano? Oppure crede soltanto nel brand Gomorra e nei soldi che possono fruttargli? E Saviano ne è consapevole? Che ne pensa?
Quando, sempre con il padre del boss, parla dei magistrati che l’hanno interrogato, per chiedergli se aveva subìto pressioni ed estorsioni, De Laurentiis dice: “Mi hanno tenuto tre ore e mezzo per cercare di farmi dire che erano soldi di proventi illeciti. E io gli ho spiegato che è tutto lecito, è tutto regolare, non c’è nessun problema, non abbiamo avuto nessuna pressione. Perché loro mi chiedevano se avevamo subito pressioni da lei per un ulteriore pagamento oltre a quello dell’amministrazione giudiziaria, ha capito? Perché loro in quello configurerebbero un reato. E perciò, noi questo reato lo dobbiamo completamente levare”. È questo – secondo l’accusa – il modo di De Laurentiis per non pagare il clan: li avverte che c’è un’indagine in corso, mente ai magistrati, convince il boss che, se non paga, in fondo è meglio per tutti.
Domanda: ma perché non ha denunciato ai pm la situazione, schierandosi dal lato della giustizia, invece di trattare con il clan, per non pagare il pizzo, per di più avvertendoli che c’era un’indagine in corso? Per paura? La paura è comprensibile, è umana, ma la disonestà intellettuale è un’altra cosa: possiamo chiedere a De Laurentiiis di ammettere che, nel timore, ha umanamente scelto di collaborare con il clan e non con la magistratura? E – se possibile, a questo punto – di ammettere che Gomorra – la serie è un’operazione commerciale, perfettamente riuscita, ma che, sotto il profilo della sua ricaduta sociale su Torre Annunziata è un fallimento, anzi, un pericoloso spot a favore della camorra?
Torno a rivolgere tutte queste domande, apertamente, a Roberto Saviano. Perché non è adulandolo che si rispetta un uomo, ma considerandolo per il suo valore, e le parole di Saviano – come ho scritto ieri – hanno un grande peso. Da settembre a ieri ha taciuto. Anche il suo post, pubblicato su facebook, non entra realmente nel merito della questione.
Alla luce di questi 10 punti possiamo considerare Gomorra – la serie in sintonia con la tua opera di denuncia e di contrasto alla Camorra?