Che qualcuno lo abbia tirato giù non c’è dubbio. Un bimotore capace di portare 300 persone non precipita da diecimila metri per un guasto senza che dal cockpit arrivi un allarme, una sola indicazione di pericolo. E i moderni aerei da trasporto stanno in aria anche con un solo motore funzionante. Certo, le Malaysia Airlines quattro mesi fa hanno visto sparire letteralmente nel nulla un altro loro aereo, il volo MH370. Senza una traccia, senza una voce che spiegasse cosa stesse succedendo. Ma in quel caso, dicono, il pilota o qualcuno nella cabina di pilotaggio, si sarebbe auto-dirottato. Dove? Non si sa e gli indizi puntano in direzioni troppo diverse. E poi c’è il vasto oceano.
Nel caso ucraino, è diverso. Di indizi ce ne sono tanti e la maggior parte punta in una sola direzione: un missile. E non uno di quelli operabili da un solo uomo, a spalla. A quelle quote non sarebbe mai arrivato. Dunque, o un missile lanciato da un aereo oppure un sistema ben più complesso e pesante.
Come il BUK russo, ad esempio, denominato SA-11 Gadfly dalla NATO, un sistema semovente antiaereo non recentissimo ma in grado tranquillamente di raggiungere diecimila metri di quota. E anche oltre. Un missile in servizio sia nell’esercito russo che in quello ucraino e apparentemente in possesso anche dei separatisti filorussi operanti nel nord dell’Ucraina. I guerriglieri lo avrebbero catturato il 29 giugno scorso quando preso la base di un reggimento antiaereo dell’Esercito ucraino. Dunque tre possibili colpevoli.
Poche ore dopo la tragedia, lo SBU, il servizio segreto ucraino, ha diffuso la registrazione di alcune conversazioni intercettate tra un certo “Bes”, un capo ribelle, e un colonnello russo, Vasyl Mykolaiovych Geranin, dove si parla di un aereo nemico abbattuto. In una successiva, con Mykola Kozitsyn, un capo militare cosacco, che si troverebbe nell’area dell’incidente, si parla invece di un aereo civile. “Un mare di corpi e di oggetti” dice il cosacco al suo interlocutore russo. E altre informazioni, anche queste di fonte ucraina, dicono che due ore prima del disastro, un lanciatore di missili BUK era stato visto nei pressi della cittadina di Torez, poco distante dall’area dove il Boeing della Malaysia Airlines è caduto.
Insomma, un missile ribelle tirato contro il bersaglio sbagliato ma con il consenso dei russi. Se la ricostruzione fosse questa, la responsabilità di Mosca andrebbe ben oltre la semplice conoscenza dei fatti e un laisser-faire. Un sistema della complessità del missile BUK non solo ha bisogno di gente molto addestrata per poter funzionare (e se fosse stato catturato il 29 giugno, quindici giorni per rendere operativa la batteria sono francamente un po’ pochi) ma deve anche essere integrato in un sistema di comando e controllo più ampio. Per cui non ribelli potevano usarlo, ma militari addestrati in Russia e “prestati” agli insorti. Comunque la si guardi questa storia, la colpa cadrebbe in ogni caso sui russi.
Francamente non ho nessuna simpatia per il governo di Mosca e allo stato dei fatti ho l’impressione che questa ricostruzione sia quella più realistica, ma certo queste prove così circostanziate e chiare emerse a poche ore dal disastro un po’ fanno pensare. Possibile che i militari russi parlino di una questione così delicata e imbarazzante con le loro controparti filorusse ucraine usando una connessione non criptata? Roba da plotone di esecuzione.
Nello stesso tempo, perché la NATO, che lo scorso aprile ha spostato in Polonia e Romania i suoi aerei radar AWACS per sorvegliare lo spazio aereo ucraino e della Crimea, non dice cosa sa, che cosa risulta dai loro tracciati? Sarebbe la pistola fumante decisiva per inchiodare i russi e i filo-russi alle loro eventuali responsabilità.
Ma dubito che ce lo diranno. Non tanto perché dietro ci sia necessariamente qualche inesplicabile complotto, ma perché i militari non sono disposti a fare sapere a un potenziale avversario quanto davvero sanno (o non sanno). D’altronde, le arancioni scatole nere difficilmente potranno essere di qualche aiuto, ammesso che siano accessibili. Al massimo potranno confermare che fu un missile. Non chi ha spinto il bottone.
Insomma, le domande sono molte più delle risposte. Vedremo nei prossimi giorni. Qualche altra considerazione merita una domanda che tanti si sono fatti. Perché l’aereo si trovava sopra una zona di guerra e a quella quota? Quando l’aereo è precipitato era in vigore un NOTAM (Notice to Airmen, avviso ai naviganti) che interdiva la navigazione aerea tra FL260 e FL320, cioè tra i 7600 e i 9750 metri di quota in tutto lo spazio aereo (FIR, Flight Information Region) di Dnipropetrovsk.
Il volo MH17 si trovava al FL330, cioè poco sopra i diecimila metri. Appena trecento metri più alto del limite di esclusione. Poco, troppo poco per essere al sicuro. Subito dopo la scomparsa del volo dai radar la zona di esclusione è stata portata dal FL260 all’infinito. E stamattina tutto lo spazio aereo è stato dichiarato no fly zone. Troppo tardi. Ma c’erano gli interessi delle compagnie aeree da tutelare. Il corridoio aereo dove è avvenuto il disastro è quello che collega l’Europa al sud-est asiatico, uno dei più frequentati e “ricchi” del mondo. Impensabile, fino a ieri, bloccarlo.