Camminando a ritroso nella storia della moda, a ogni celebre couturier corrispondono più (o meno) note pietre miliari. Il 1926 fu l’anno di Coco Chanel e della sua Little Black Dress, quell’intramontabile tubino nero destinato a conquistare la modernità, ma anche a offuscare ciò che Mademoiselle Coco portò alla ribalta qualche anno prima: l’abbronzatura. Fu proprio il suo corpo dorato dal sole della French Riviera ad abbattere i confini di un mito, spingendo donne sempre più audaci a esporre braccia, gambe e spalle non solo a malevoli raggi solari, ma anche alla vista altrui con i primi, moderni costumi da bagno. Dopo anni in cui il concetto di costume “intero” aveva letteralmente ispirato creazioni ideate per coprire il corpo nella sua totalità, le signore francesi dell’età del jazz si avventurarono fra le onde con la stessa esuberanza in uso nei teatri parigini, durante i primi concerti tropicali di Joséphine Baker.
In Italia proprio come Oltralpe, le acque termali di Montecatini, Salsomaggiore e Fiuggi lasciavano intanto il posto alle spiagge di Riccione, Bellaria e Rimini, nuove mete per donne vestite da canotte e shorts in cotone coprente, gonnelline con cintura o modelli più atletici in jersey di lana, indossati anche dagli uomini con aderenti culottes. Un corpo esibito che si fece audace lungo il corso degli anni Trenta, quando anche la schiena divenne zona franca non più soggetta alla disapprovazione dei conservatori, liberata da tessuti di seta elasticizzata proposta in stravaganti fantasie (almeno fino all’avvento delle fibre sintetiche, avvenuto dopo la seconda guerra mondiale).
Ma intanto, nel 1932, il couturier parigino Jacques Heim lanciava “Atome”, il primo costume in due pezzi che qualche coraggiosa accettò di indossare mostrando un ventre fino ad allora solo immaginato. Fu però dopo il secondo conflitto mondiale che l’ingegnere automobilistico Louis Réard, dopo aver preso le redini della materna boutique di lingerie poco distante da Les Folies Bergères, riprese in mano anche il concetto di costume composto da due parti differenti, riducendone le dimensioni in modo così esplosivo da essere battezzato in nome di un atollo “atomico” delle Isole Marshall, bombardato da test nucleari americani nel luglio del 1946 gli americani: Bikini. Per capirne l’impatto sulla società, basti pensare a come Réard dovette ricorrere al favore di Micheline Bernardini, ballerina senza veli al Casinò de Paris, per presentare lo stesso anno il suo nuovo costume alle piscine Molitor di Parigi. Una presentazione che rese celebre lo stilista, subissato nei giorni successivi da oltre cinquantamila lettere di ammirazione (quasi esclusivamente maschili).
Dopo anni di esitazione e rifiuto, il bikini trovò il suo posto solo con la consacrazione portata dalle star cinematografiche che, negli anni Sessanta, lo resero parte integrante della moda femminile: dal modello Vichy di Brigitte Bardot indossato in Et Dieu créa la femme di Roger Vadim, a quello più grintoso e sensuale portato dalla Bond girl Ursula Andress (venduto non a caso all’asta da Christie’s nel 2001 per oltre quarantamila sterline). Una lungimiranza e un coraggio già mostrati anche da Sofia Loren, vincitrice del premio Miss Eleganza nel 1950 con indosso solo un due pezzi, come sperimentato prima di lei da Lucia Bosè che, in quelle vesti, vinse anche Miss Italia nel 1947. «Molto rumore per nulla», direbbero forse oggi le celebri Ragazze in bikini: ginnaste siciliane raffigurate da mosaici di Villa del Casale a Piazza Armerina… “solo” millesettecento anni fa.