L’ambulanza si ferma davanti all’ingresso del pronto soccorso. Immediatamente la calca di telecamere. I paramedici aprono il portellone e i cameraman sussultano. Sulla barella c’è un uomo ventenne, è morto. Indossa un giubbotto antiproiettile. Sul petto a lettere rosse ha scritto PRESS. Accanto a lui, coperti di polvere, una videocamera e un registratore vocale.
Khalid Hamad aveva 26 anni e lavorava per un’agenzia d’immagini televisive. Attorno alle sei di domenica mattina stava viaggiando su un’autoambulanza a Sajaya, quartiere a est di Gaza. Nella notte un carro armato israeliano è attaccato dai miliziani di Hamas. Sette soldati sono morti. Poco dopo Israele ha iniziato una dura offensiva contro tutto il quartiere, 67 palestinesi hanno perso la vita, centinaia sono rimasti feriti. Il mezzo su cui viaggiava Khalid viene colpito, lui rimane ferito. L’intenso bombardamento non permette ai soccorsi di arrivare prima delle dieci. Khalid muore solo, probabilmente dissanguato (video). Lascia la moglie, sposata quattro mesi fa, incinta.
Poche ore prima che iniziassero gli scontri a Sajaya il GPO (ufficio stampa del governo israeliano) aveva mandato una email a tutti i giornalisti stranieri accreditati in Israele. “Il GPO –si legge nel comunicato- sta facendo tutto quanto in suo potere per dare alla stampa straniera informazioni tempestive (sull’Operazione Margine Protettivo) e per facilitare l’accesso” alla Striscia. Infatti per entrare a Gaza i giornalisti si devono accreditare presso l’ufficio israeliano. Più avanti nella email l’ufficio stampa ricorda che “Gaza è un campo di battaglia. Coprire le ostilità espone i giornalisti al rischio di morte”. Pure questo non fa una piega, chi corre in mezzo agli spari sa bene cosa rischia. La lista di inviati, fotografi e cameraman morti sui campi di battaglia è lunga, forse troppo. Ma è la parte finale dalla email che ha lasciato tanti a bocca aperta. “Essendo parte della strategia di Hamas quella di nascondersi dietro la popolazione civile è successo sovente che i giornalisti fossero usati come scudi umani, mettendoli deliberatamente a rischio di essere feriti o della loro stessa vita”. Scudi umani? Quale giornalista o fotografo farebbe interposizione in un confronto armato? La mail, poi, si chiude così: “Israele non è in nessun modo responsabile per ferite o danni che potrebbero accadere come risultato di giornalismo sul campo”.
Gli attacchi dell’Idf (Israel Defence Force) nei confronti della stampa durante le operazioni militari nella Striscia di Gaza, sono stati frequenti. Pochi giorni fa la torre al-Jawhara è stata colpita da tre missili. Nell’edificio si trovano diverse redazioni tra cui quella della televisione iraniana Press Tv e dell’agenzia di stampa al-Watanya. Nel bombardamento un giornalista è rimasto ferito. Sempre in questi giorni una seconda torre di Gaza, dove si trovano gli uffici di PMP, uno dei più grandi provider di servizi satellitari per le dirette televisive, è stata evacuata per timore di un attacco israeliano. Ora le connessioni in diretta, che avvenivano nei loro studi, sono state spostate in varie location per tutta la città. La stessa PMP era stata bombardata nella guerra del novembre 2012. In quella occasione il provider spostò l’ufficio presso uno dei grandi alberghi sulla costa, dove alloggiavano decine di giornalisti. Due giorni dopo un missile israeliano colpì uno spazio vuoto a pochi metri dall’hotel. Nel 2008 durante l’operazione Piombo Fuso il governo israeliano impedì completamente l’accesso ai media nella Striscia di Gaza. L’attacco fu coperto solo da cronisti che erano già dentro la Striscia quando iniziò l’escalation militare. Furono sei i giornalisti uccisi in quei giorni. L’unica corrispondenza italiana di quella guerra fu quella di Vittorio Arrigoni per Il Manifesto.