Il sindaco di Roma Ignazio Marino riesce a scontentare tutti anche quando fa la cosa giusta. Il provvedimento che azzera il consiglio di amministrazione di Roma metropolitane preso nella giornata di ieri è un fatto positivo e molto atteso da chi conosce i problemi della capitale. Il consiglio fu nominato nel febbraio 2013 dal precedente sindaco Gianni Alemanno che era da tempo nell’occhio del ciclone per una serie inaudita di scandali e malversazioni che hanno coinvolto le municipalizzate capitoline. A dimostrazione dell’impunità e dell’arroganza che contraddistingue la politica, mise uomini fidati (per poi ripensarci quasi subito) a guardia di una vera cassaforte di denaro pubblico a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato amministrativo.
E non è che –con tutto il rispetto per le persone- avesse posto a capo dell’azienda i grandi manager che costruiscono metropolitane e tramvie in Europa e nel mondo. Il presiedente del cda era Massimo Palombi, ingegnere ma con un curriculum tutto politico nelle fila del centro destra, come Massimo Nardi che aveva collaborato con lo staff di Berlusconi. Uomini così non potevano durare un solo giorno dopo l’insediamento del nuovo sindaco: la sostituzione avviene invece con un ritardo di un anno forse passato a studiare il complesso dossier.
Ma ciò che stupisce di più è che Marino non riesce a parlare alla città, a far vedere che dietro questo o quel provvedimento c’è un pensiero complessivo, un disegno, un’idea di speranza per una città in profondo declino.
E il caso della metropolitana ‘C’ di Roma che dopo il Mose di Venezia e il Tav è fra le opere pubbliche più costose in Italia, si prestava magnificamente per inviare segnali chiari. L’opera che dall’estrema periferia est della città (Pantano Borghese) avrebbe dovuto arrivare nei quartieri centrali intorno al Vaticano è infatti un caso da manuale di sperpero di denaro pubblico. Il suo cammino inizia nel 1990, in un periodo appena precedente a Tangentopoli e -come ci ha insegnato la vicenda del Mose- si è partiti con un importo approssimato, inizialmente erano poco più di 3 miliardi, e poi strada facendo tra infinite varianti progettuali e ritardi di consegna si arriva a raddoppiare la cifra. Consulenze d’oro; progetti rifatti molte volte; ritardi nelle decisioni che spettano all’amministrazione pubblica porteranno a sei miliardi il costo definitivo dell’opera. Sono note, e il Fatto Quotidiano ne ha ampiamente parlato, che la Corte dei Conti è dovuta intervenire con due relazioni che elencano una serie impressionante di errori e sprechi di denaro.
Sui tempi è soltanto da ricordare che nel 2011 sempre Alemanno annunciò con gradi squilli di tromba che nel 2013 sarebbe entrata in esercizio la tratta Pantano – San Giovanni. Se tutto andrà bene –e bisogna fare gli scongiuri- questo tratto che era di facile esecuzione perché riutilizzava in parte un vecchi tracciato tramviario esistente, verrà aperta nel 2018. I lavori furono iniziati nel 2007: dieci anni abbondanti per un tratto realizzato spesso fuori terra. Un record italiano. Nel provvedimento di azzeramento del Cda, Marino non ha sfiorato questo problema gigantesco che non può essere attribuito solo ai dirigenti sostituiti. E’ invece il tema decisivo per dare una speranza al paese, e cioè che si prende atto finalmente del tragico inganno della retorica del ventennio del liberismo selvaggio che ha accomunato centro destra e centro sinistra e si ristabiliscono regole.
In questi stessi giorni, ad esempio, Marino sta chiedendo alla città un sacrificio economico immenso: 440 milioni di tagli alla spesa pubblica in tre anni. Contemporaneamente vengono aumentate tutte le aliquote della tassazione locale. Marino, in buona sostanza si sta chiedendo a tutti i romani di contribuire a colmare la voragine del debito causata dall’arroganza della politica e non apre la discussione su come sono stati e come saranno spesi i soldi pubblici.
Il comune di Roma ha una partecipazione del 17% di Roma metropolitane e per completare l’opera dovrà accollarsi per quella quota percentuale i tre miliardi aggiuntivi causati dalla mala politica che mette le mani sui soldi pubblici. Oltre che con la riduzione dei servizi che si produrrà con il taglio dei 440 milioni, i romani pagheranno dunque circa 500 milioni aggiuntivi per perpetuare un sistema di potere affaristico. Il sindaco finora non ha sollevato la questione. Ci auguriamo che lo faccia al più presto indicando che c’è un altro modo per uscire dal debito: farlo pagare ai responsabili e non ai cittadini.