Arrivano a centinaia, migliaia, senza soluzione di continuità le foto che ci portano, all’interno delle nostre sicurezze, l’eco di “lontane” azioni militari israeliane a Gaza con immagini di morte e distruzione. Tra tutte s’impongono, col loro pieno senso di insensatezza, quelle dei bambini uccisi mentre giocavano in spiaggia, fotografie che lasciano attoniti prima ancora che inorriditi.
Cosa possono queste foto? Cosa può la fotografia?
Non ci provo neanche ad affrontare un argomento come quello della fotografia che mostra il dolore, la sofferenza e la morte, tanto è opinabile, controverso, scivoloso. Molti e forse troppi si sono espressi: libri, trattati, convegni, articoli e chiacchiere hanno preteso di stabilire quale effetto determina una fotografia di questo tipo su chi la osserva.
Quale effetto determina io non lo so, perché non so cosa siamo, e soprattutto cosa siamo diventati.
Spesso si parla di icone, ma tale definizione gioca ambiguamente tra valore assoluto di una fotografia e suo “autismo visivo”. Un’icona a volte diventa monumento e si chiude in sé, tagliando per sempre il suo rapporto primigenio con la realtà.
Insomma, mai come in questi casi la fotografia è incapace di dare risposte e certezze, ma capacissima di fare ciò che davvero sa fare: porre domande.
Più mi scorre davanti la testimonianza di come siamo bravi a odiarci, più cresce in me il fiume di dubbi.
La madre di tutte le domande, lì da sempre, è ancora lì: può una fotografia contribuire a un miglioramento, se non proprio a cambiare il mondo?
Ma poi, avrebbe più effetto una sola di queste foto se potessi ripensarla per ore, o altre mille intraviste in un’ordinaria giornata vissuta da automa impazzito e nevrotico?
Siamo più permeabili alla forza di una foto “in presa diretta”, grezza, calda e polverosa, o alla forza della forma, cioè all’organizzazione estetica dell’inquadratura, alla mediazione autoriale che vuole elevare quella foto dal flusso spesso indistinto delle altre?
Ancora: di chi mi posso e mi devo fidare? Ha più credibilità una fonte giornalistica codificata e istituzionale, con un’ipotesi di etica e deontologia, con un’ipotesi di verifica, ma talvolta anche con l’arroganza di chi crede di sapere, o un giornalismo partecipativo dal basso, più incontrollato e dunque a rischio propaganda e bufala ma anche più diretto e viscerale?
E da fotografo, come posso contribuire a “risensibilizzare” le coscienze piuttosto che ad anestetizzarle?
Come si può, da fotografi e anche da lettori, abbassare a zero il volume di quel maledetto rumore di fondo visivo che rende ovattata la nostra percezione?
Alcune foto di bambini ripresi nel momento in cui, anziché giocare, incontrano la sofferenza, sono tarli che ormai abitano in permanenza il mio e il nostro immaginario, dal bimbo ebreo nel ghetto che alza le mani impaurito alla piccola vietnamita che scappa piangente bruciata dal napalm, dai baby-soldati di molte guerre ai bambini che ora non vedono più il mare di Gaza pur essendo a pochi metri, in quella spiaggia.
Se dunque, pur vivendo vite immunizzate da anticorpi contro la sofferenza degli altri, alcune foto si appiccicano addosso e fanno male, a ben vedere la domanda forse più cruciale, e anche la più legata allo specifico della fotografia, è una domanda sulla memoria.
Susan Sontag, occupandosi di questi argomenti, ebbe a dire che fare pace significa dimenticare, mentre sappiamo che la fotografia è memoria e aiuta – viceversa – a mantenere il ricordo. E allora, in questo senso, la fotografia può essere addirittura “contro la pace”?
Ma quando invece si raccomanda di non dimenticare per non ripetere gli errori e gli orrori, la fotografia torna in aiuto come testimonianza.
Dimenticare per ricominciare, o ricominciare in quanto memori e consapevoli?
Domande, domande e nessuna certezza tranne una: dove le fotografie non suscitano domande è perché le fotografie non esistono, e se in quel luogo non esistono è perché le domande sono vietate.