La Striscia di Gaza è tornata a macchiarsi di sangue. Quello dei civili, dei bambini soprattutto ti fa urlare di rabbia perché morti del genere annientano la speranza. Uccidere un bimbo significa infliggere un dolore amplificato a chi il lutto, poi, può elaborarlo solo con la rabbia. Significa attentare alle nuove generazioni, quasi a volerle gettare in trincea, subito, perché Israele e Palestina sono in guerra da sempre e la guerra, il sangue, l’odio è la normalità dei giovani dell’una e dell’altra parte.
Quando l’ondata dei conflitti torna a sconvolgere la Striscia di Gaza e Israele, il conto dei morti è un macabro rituale che da la misura di quanto sia facile abituarsi alla morte, alle bombe, a ciò che normalità non è e non dovrebbe essere. Un bambino israeliano e uno palestinese che giocano a calcio sulla spiaggia sarebbe normalità. L’odio impedisce che giochino insieme, la guerra impedisce che giochino e basta. Il gioco è il primordiale appiglio della speranza, perché esso appartiene ai bambini. Il pallone da calcio è la raffigurazione classica del divertirsi all’aria aperta, serenamente. Ma gli spazi aperti, oggi, non sono nemmeno lontanamente campi di calcio, ma campi di uno sterminio indecente.
Pensare allo sport, in una fase in cui il sangue scorre a fiumi e travolge tutto non è un’eresia. E’ un appiglio per la normalità che può supportare la diplomazia quando tutto questo finirà. Già, perché questo dovrà finire e fra le macerie anche una pietra può trasformarsi in un pallone da calciare. La guerra è cieca e non risparmia lo sport. E’ notizia di questi giorni la morte del 21enne pallanuotista Bar Rahav, colpito insieme al suo contingente da un missile sparato da un autocarro nella regione di Ramat Yishai. Rahav era il capitano del Kiryat Tiv’on, squadra del distretto di Haifa, con cui aveva vinto il campionato nazionale e guadagnato la convocazione nella nazionale di pallanuoto israeliana. Avrebbe potuto essere esentato dal prestare servizio nel genio militare israeliano per meriti sportivi, ma ha scelto di arruolarsi e morire.
Il campionato di calcio è fermo, ma un comunicato Uefa ci dice che “Fino a nuovo avviso in Israele non si disputeranno incontri delle competizioni”. Alle squadre israeliane è stato chiesto di proporre sedi alternative al di fuori del territorio nazionale per le gare casalinghe di Champions League e Europa League nella stagione 2014-2015. Anche il tifo calcistico “congelato” deve traslocare e con esso un barlume di normalità. Non sono solo i grandi palcoscenici sportivi a patire le limitazioni dei conflitti.
Essi non fanno distinzioni di rango o luogo e influenzano la vita degli atleti anche al di fuori dei confini territoriali. Ad esempio, domenica pomeriggio sono partiti i mondiali di ultimate frisbee a Lecco. Al centro sportivo Bione migliaia di giocatori si sfideranno sul prato del Rigamonti-Ceppi e alla Poncia di Annone Brianza. Fra le cronache locali si apprende che, “a causa della presenza di tre squadre provenienti da Israele, la Questura sarà in allerta per verificare che tutto fili liscio. Per maggiore sicurezza le rappresentative arrivate dallo stato del Medio Oriente sono accompagnate da agenti del Mossad. I tre team israeliani, infatti, sono le uniche rappresentative sportive fuori dai propri confini in questo momento delicato”.
Dello sport si può fare a meno se il sangue, le vittime e gli orrori della guerra diventano l’unica notizia che due popoli riescono a esternare al mondo, ma se e quando tutto questo odio finirà, da qualcosa si dovrà ripartire. Sotto le macerie insanguinate occorrerà scavare a lungo per dare degna sepoltura ai morti, ma sperando di ritrovare anche quel pallone da calcio malconcio così che torni a regalare speranza.