“Sono soddisfatto. Sono stati mesi molto pesanti, ora si sono conclusi bene e non pensiamoci più”. Gianluigi Gabetti, ex numero uno di Ifil, mercoledì ha così liquidato la sentenza favorevole della Corte di Strasburgo sul doppio procedimento, amministrativo e giudiziario italiano, relativo alla vicenda dell’equity swap Fiat. Ovvero di quella complessa operazione che, nel settembre 2005, permise agli Agnelli, con il supporto di Merrill Lynch, di restare al volante della casa automobilistica torinese. Ad uscirne sconfitta dalla partita giudiziaria è, invece, l’Italia che i magistrati comunitari invitano a far di tutto per rimuovere le “défaillances strutturali della procedura amministrativa e giudiziaria e dei controlli delle sanzioni amministrative della Consob”.
Per Strasburgo, che nei giorni scorsi ha confermato la condanna nei confronti dell’Italia per il caso, diventata quindi definitiva in seguito alla bocciatura del ricorso presentato dal governo contro la prima sentenza di marzo, infatti, la sanzione amministrativa e pecuniaria, decisa da Consob nel febbraio 2007, è stata così pesante “da fargli assumere una connotazione penale“. Al punto da rendere ingiusto il procedimento giudiziario per manipolazione di mercato sulla base del principio “ne bis in idem”, ovvero dell’impossibilità di processare due volte i soggetti coinvolti (Exor Spa, Giovanni Agnelli & C. Sapa e Gianluigi Gabetti, Virgilio Marrone e Franzo Grande Stevens) nell’operazione finita nel mirino Consob. “Con questa sentenza – spiega la Corte – non si chiede all’Italia di cambiare le sue regole”, che tra l’altro rischiano di giocare a favore anche di altri procedimenti come quello sui diritti tv della Mediaset di Silvio Berlusconi. Ma si domanda al Paese di “terminare più rapidamente possibile il processo penale nei confronti dei ricorrenti, senza conseguenze avverse per questi”.
E senza lasciare tutto nelle mani delle “autorità indipendenti” che “cumulano dei poteri di sanzioni e dei poteri di incriminazione con un largo potere di supervisione su un settore particolare di mercato (…), imponendo talvolta alla persona controllata/sospettata un obbligo a cooperare con i suoi propri accusatori”. Un sistema complesso, quello messo sotto accusa dai magistrati europei, che toglie spazio ad un equo procedimento giudiziario. “La successione di tre, a volte, quattro stadi di comunicazione dei documenti scritti dalla difesa (due davanti all’autorità amministrativa, uno davanti alla Corte d’appello e eventualmente un altro davanti alla Cassazione) è una garanzia illusoria che non compensa il carattere intrinsecamente iniquo della procedura. E’ chiaro che la tentazione è stata di delegare a queste “nuove” procedure amministrative la repressione di condotte che non possono essere trattate con gli strumenti classici del diritto penale e della procedura penale – concludono i giudici – Tuttavia, la pressione dei mercati non può prevalere sugli obblighi internazionali di rispetto dei diritti dell’uomo che incombono sugli Stati legati dalla Convenzione”.
Di qui la sentenza favorevole agli Agnelli e la condanna per l’Italia, per la lentezza del suo sistema giudiziario e il meccanismo di controllo sui mercati delegato alla Consob. “Riteniamo che I ricorrenti sono stati trattati ingiustamente dalla Consob e dalle giurisdizioni interne e che la nostra Corte non gli ha reso giustizia che a metà (…) Speriamo che la presente sentenza sia l’occasione per le giurisdizioni interne di rendere pienamente giustizia ai ricorrenti e inciti il legislatore italiano a rimediare alle défaillances strutturali della procedura amministrativa e giudiziaria e dei controlli delle sanzioni amministrative della Consob. Se si decide di raccogliere questa sfida questa potrà costituire un esempio e una fonte d’ispirazione per le altre legislature confrontate ad un problema sistemico simile”, è la conclusione.