La mattina del 21 luglio, quel “panettiere dell’informazione” che risponde al nome di Alessandro Milan (comincia a lavorare dai microfoni di Radio 24 alle prime ore dell’alba, come i panificatori) si è occupato di un tema che si potrebbe definire di nicchia, poiché riguarda solo alcune centinaia di persone, ma ha invece un valore simbolico universale: il trattamento economico post e pre-pensionamento dei dipendenti di Camera e Senato.
Nel giro di pochi minuti, gli ascoltatori hanno avuto modo di farsi una cultura a proposito della disparità di trattamento tra cittadini ordinari e cittadini protetti in quanto assunti presso organi costituzionali, quali sono appunto i due rami del Parlamento. Mentre i cittadini ordinari sono obbligati ad accettare modifiche inaspettate e improvvise alle norme che regolano il loro rapporto di lavoro e salariale (vedi la riforma Fornero), i cittadini protetti possono trincerarsi dietro la formula “diritti acquisiti” per frenare qualsiasi cambiamento. Compresi quelli che sarebbero dettati dalla spending review. Anzi, si sentono autorizzati a bypassare persino le leggi che – in questo caso particolare – hanno contribuito o contribuiranno a scrivere.
Il dibattito prendeva spunto da una serie di articoli sul Messaggero, a firma Diodato Pirone, che sottolineavano come la spesa per le pensioni dei dipendenti (non dei politici) di Montecitorio incida al 25% sul bilancio generale.
La trasmissione ha poi confermato che, nonostante il tetto massimo per i dirigenti statali stabilito dal governo Renzi sia di 360 mila euro, a tutt’oggi il segretario generale della Camera guadagna 480 mila euro lordi annui. E che circa 130-150 figure apicali, tra Camera e Senato, percepiscono oltre 240 mila euro. Poiché esula dal ragionamento che si intende approfondire, sorvoliamo sul dettaglio che il barbiere di Montecitorio porti a casa 136 mila euro lordi l’anno, la medesima cifra destinata ai primari degli Ospedali Riuniti della Valdichiana (euro più, euro meno).
Quel che si vorrebbe proporre alla riflessione comune è l’approccio meritocratico, che nessuno solleva mai nelle trattative con la pletora di sigle sindacali che rappresentano queste persone. Loro sono quelli che fanno le leggi, viene detto ogniqualvolta si tenta di tagliare da quelle parti. Ricoprono funzioni delicatissime.
Appunto.
Tralasciamo la questione degli elettricisti e persino dei commessi parlamentari, strapagati. Troppo banale. No, occupiamoci proprio dei funzionari, di quei blasonati dottori plurilaureati che saranno pure dei fini intenditori di sofismi giuridici e che però alla prova del budino si rivelano – nel complesso, sia chiaro, non si fa torto al singolo – davvero di scarsa efficacia professionale se è vero, come è vero, che l’Italia è il paese con il maggior numero di leggi, mal costruite, peggio scritte e in grande misura creatrici di incomprensioni giuridiche tali da provocare i mal di pancia a tanti buoni cittadini per non parlare dei sovraccarichi nei tribunali lamentati persino dall’Associazione Nazionale Magistrati.
E chi, se non l’attuale segretario generale in carica da 15 anni (e perciò fruitore di oltre 7 milioni di euro lordi, diciamo 3 e mezzo netti) ci ricordava nel 2011 che proprio la supervisione delle leggi è compito suo e dei suoi collaboratori? Bene, in tal caso, nessuno di loro dovrebbe opporsi all’introduzione della regola in base alla quale, come per i medici, gli insegnanti e gli altri pubblici impiegati, anche i funzionari “costituzionali” siano sottoposti alla valutazione di fine anno. E, a valutazione conclusa, non solo sia consentito sforbiciare le retribuzioni ma, nel caso, sia ammesso licenziare i peggiori.