Hanno incrociato le spade sulla riforma del Senato, ma per offrire una stampella all’azzoppato capitalismo dei salotti finanziari non hanno fatto fatica ad andare a braccetto. Il governo Renzi e la minoranza interna Pd – fra cui spicca per attivismo il presidente della commissione Industria di Palazzo Madama, Massimo Mucchetti – hanno infatti messo su un piatto d’argento un pacchetto di misure che permetterà ai signori dei salotti ex buoni della finanza di continuare a comandare in Borsa. Senza impegnare altri soldi.
Con l’emendamento approvato giovedì dalle commissioni Industria e Ambiente del Senato, in sede di conversione in legge del Decreto Competitività varato lo scorso 24 giugno dal governo, si mette infatti un puntello a quel che rimane dei vecchi assetti proprietari dei grandi gruppi finanziari, da Mediobanca a Intesa e Unicredit, passando per Pirelli, Rcs e molti altri. Salvo sorprese dall’aula del Senato (dove la deliberazione finale è attesa in giornata, con voto fiducia), viene dunque definitivamente incrinato il principio per cui nelle assemblee delle società un’azione vale un voto. Le azioni si potranno, cioè, “pesare”. Come sarebbe piaciuto al vecchio Enrico Cuccia, il banchiere di Mediobanca che fu il nume tutelare dei salotti buoni e delle grandi famiglie italiane.
In breve, si passa dalla perfetta uniformità dei diritti amministrativi connessi al possesso di un’azione ordinaria a una situazione in cui alcune azioni godranno di più diritti di voto delle altre. La motivazione ufficiale della norma è di incoraggiare la quotazione delle piccole e medie imprese, attraendo gli imprenditori che non vogliono perdere il controllo, di premiare la fedeltà nel tempo degli azionisti, anche di grandi società, e di scoraggiare le imprese dal ricorrere ai ben noti patti di sindacato e alle piramidi societarie. Se non fosse che, negli ultimi anni, questi storici strumenti opachi di conseguimento del controllo si sono sbriciolati sotto il peso della crisi e delle cattive gestioni aziendali. Al netto delle buone intenzioni dichiarate, dunque, queste misure, sommate all’introduzione di una seconda soglia d’Opa obbligatoria al 25% (in aggiunta a quella generale del 30%), avranno l’effetto di riconsolidare gli assetti di controllo della finanza italiana, che la crisi ha messo a dura prova e sbriciolato. Vediamo come.
Nel dettaglio, sono quattro le principali novità che irrompono in materia di voto societario per le società quotate: il voto maggiorato, il voto plurimo, il voto limitato e quello scaglionato. Il primo caso – già presente nel Decreto Competitività dello scorso 24 giugno ma rafforzato dall’emendamento dei relatori Mucchetti e Giuseppe Marinello (Ncd) – si ha quando, via statuto, vengono attribuiti fino a un massimo di due voti “per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi”. Non si tratta quindi di una vera e propria categoria di azioni, ma di premio fedeltà temporaneo, che viene meno in caso di vendita delle azioni. A tendere, comunque, i soci stabili saranno in una botte di ferro. E sarà sempre più arduo poter procedere al ricambio dei vertici aziendali, visto che gli investitori istituzionali (fondi, sicav, compagnie di assicurazione) raramente immobilizzano per due anni i loro investimenti.
Per spazzare via un management inadeguato, resta tuttavia la strada, ben più costosa, dell’Opa ostile. Va detto, tuttavia, che in questa eventualità, qualora il cda chiami l’assemblea a varare misure difensive contro gli scalatori (le cosiddette “pillole avvelenate”), si voterà secondo il vecchio principio un’azione-un voto. Lo stesso vale per le azioni a voto plurimo, introdotte con l’emendamento Mucchetti-Marinello. Qui, si tratta di una tipologia a se stante, creata ad hoc: se lo statuto lo prevede, ogni azione avrà più diritti di voto (fino a un massimo di tre). Salta così un caposaldo del diritto societario (il quarto comma dell’articolo 2351 del Codice civile), che finora ha vietato l’emissione di azioni a voto plurimo. L’emissione di questa tipologia di azioni resta tuttavia inibita alle società già quotate, mentre le azioni a voto plurimo emesse prima della quotazione conserveranno le loro caratteristiche. Completa il quadro la facoltà, fin qui prevista solo per le non quotate, di introdurre il voto limitato e quello scaglionato. In altri termini, per le azioni quotate possedute da uno stesso soggetto, si potrà prevedere una misura massima di voti oppure che a ogni x azioni corrisponda un solo voto.
A conferma di quanto gli interventi siano pensati come strumento di supporto di assetti di controllo sempre più vacillanti (si pensi, per esempio, al potere delle fondazioni sulle banche), l’emendamento Mucchetti prevede anche l’abbassamento dei quorum deliberativi in sede di prima applicazione. Per le modifiche assunte entro il 31 gennaio 2015, il quorum deliberativo dell’assemblea straordinaria è ridotto da due terzi ad “almeno la maggioranza del capitale rappresentato in assemblea”.
L’intervento di pronto soccorso a favore del capitalismo all’italiana si completa con l’introduzione di una nuova soglia d’Opa obbligatoria. Con riferimento solo alle società principali del listino (restano quindi escluse le Pmi), alla soglia generale del 30%, ne viene giunta una seconda, al superamento del 25%, che scatta “in assenza di altro socio che detenga una partecipazione più elevata”. La norma, voluta da Mucchetti (che inizialmente aveva previsto una soglia al 20%) e molto caldeggata dal presidente della Consob Giuseppe Vegas, è stata apposta per essere applicata alla vicenda Telco-Telecom. Una disposizione che apparentemente protegge i soci di minoranza da eventuali passaggi del controllo sotto la soglia d’Opa generale (30%), ma che di fatto rende più costosa, e quindi riduce, la contendibilità del controllo delle società quotate.