A mio parere il nocciolo della questione non sta nel concetto della morte di Stato, banale, ma nel concetto della pena, assai più problematico. Non è necessario ideare nuove rappresentazioni del concetto di pena: sono state ampiamente sviluppate dai filosofi del diritto (la mia preparazione in merito è modesta e viene dai corsi di Medicina Legale che ho frequentato in passato; altri potrebbero certamente esprimersi in modo più conclusivo). Alcuni hanno ritenuto e ritengono che la pena sia soprattutto una punizione per un crimine commesso, ed un deterrente nei confronti delle recidive o di altri potenziali criminali. Le statistiche dicono che la pena di morte non è un buon deterrente, e che negli stati dove viene praticata non scoraggia il crimine violento; del resto già Cesare Beccaria aveva sottolineato l’importanza della certezza della pena piuttosto che della sua severità. Il vero deterrente è la ragionevole probabilità di essere condannato: il criminale non deve sperare di farla franca, a prescindere da quanto sarà grave la pena. Inoltre Umberto Eco aveva sottolineato che il ruolo della pena di morte come deterrente nei confronti di possibili crimini futuri utilizza il condannato a morte come un mezzo (per produrre e comunicare un messaggio), e questo non è moralmente lecito.
Una diversa interpretazione sociale della pena è il suo ruolo di rieducazione del condannato: la pena in questa prospettiva è un percorso riabilitativo obbligatorio, ed è ovvio che la pena di morte non può essere inserita all’interno di questa categoria. Il problema di questa prospettiva, naturalmente è che l’effettiva riabilitazione non si ottiene nel 100% dei casi, e dunque occorre elaborare una diversa funzione della pena per quei casi di criminali recidivi, che la pena non ha riabilitato; i sostenitori della pena di morte (se fossero furbi) potrebbero applicare le loro argomentazioni a questi soli casi.
Una interpretazione banale ma certamente efficace del ruolo della pena è quella che vede nella detenzione uno strumento per tenere temporaneamente lontano il criminale dalla società che è vittima dei suoi crimini: la pena impedisce la reiterazione dell’atto criminoso. Ovviamente questo concetto applica ai casi in cui l’atto criminoso può effettivamente essere ripetuto, e spesso l’atto criminoso che si può ripetere non è tale da prevedere la pena di morte neppure nei paesi dalla legislazione più spietata.
Discutere della pena di morte è certamente utile per la coscienza civile della società e dei cittadini; ma discutere significa evitare di banalizzare. E’ ovvio che la nostra coscienza civile ci pone dalla parte delle vittime, che auspichiamo il rispetto della legge, etc. Legge è però anche equità della pena e diritto del condannato; ed è anche ruolo sociale della pena. Non dobbiamo fermarci agli aspetti inerenti alla giusta punizione o alla umana pietà nei confronti del condannato: la pena di morte chiama in causa l’intera impostazione della filosofia del diritto e, in fondo, della nostra civilizzazione. Personalmente ritengo che ammettere nella propria legislazione la pena di morte sia una grave sconfitta dello stato e della sua civiltà: implica incapacità di recuperare il criminale, incapacità di controllarne la pericolosità sociale con mezzi meno drastici, incapacità di fornire modelli ed opportunità virtuose ai cittadini “a rischio” per comportamenti violenti. Ma forse pretendo troppo dalla nostra civiltà.