Secondo le autorità di Tokyo aumentano i reati a causa di "usi impropri" delle stampanti tridimensionali. Dopo il caso di un uomo che ha riprodotto una pistola di plastica, potenzialmente in grado di sparare, finisce nel mirino la creazione di un'artista. E si riaccende il dibattito sulla libertà di espressione
Una vera e propria “rivoluzione del crimine”, non solo della produzione industriale. È ciò che temono le autorità di pubblica sicurezza giapponesi di questi tempi, a fronte di un aumento dei reati legati all’uso improprio di stampanti 3D. L’allarme è scattato a inizio maggio.
Yoshitomo Imura, 27enne impiegato in un’università privata nei pressi di Yokohama, viene arrestato dopo il ritrovamento nella sua abitazione due pistole di plastica create con una stampante 3D. Erano potenzialmente in grado di sparare e quindi di uccidere. La tv nazionale nipponica, la Nhk, aveva svelato un video su Internet, postato dall’uomo, che mostrava tutti i passaggi per assemblare le due armi. La notizia aveva fatto scalpore anche all’estero, trattandosi del primo arresto di questo genere. Le indagini della polizia hanno poi svelato che Imura aveva aquistato la sua stampante 3D su Internet dagli Stati Uniti a settembre dello scorso anno per poco più di 430 euro. Appena un mese dopo era riuscito a fabbricare la sua prima arma da fuoco. Quello delle stampanti 3D è un mercato in crescita in Giappone e gli oggetti creati con questa tecnologia sempre più popolari. Alcuni studi medici offrono da qualche tempo a questa parte un servizio di stampa in 3D delle radiografie prenatali e confezione souvenir.
Anche il mondo dell’arte non è rimasto immune. E il caso più recente di “uso improprio” di stampanti 3D arriva proprio da qui. Megumi Igarashi, artista 42enne conosciuta con il nome di Rokudenashiko (letteralmente “ragazza buona a nulla”), è stata arrestata sabato scorso con l’accusa di “oscenità”. Aveva inviato via mail il file con la scansione 3D della propria vagina a quanti tra i suoi fan avevano donato una somma di denaro per finanziare la costruzione di una delle sue opere più recenti: Manbo (o Pussy Boat), un kayak a forma di genitali femminili modellato sulla sua stessa vagina. La polizia ha fatto poi irruzione nello studio della donna e sequestrato decine di sue opere incentrate sul tema della sessualità femminile.
Ora Igarashi rischia una pena fino a due anni di carcere. Si è così acceso un dibattito sulla libertà di espressione e, ancora una volta, sull’emancipazione delle donne nella società giapponese contemporanea. Fino a prima del suo arresto, l’artista aveva dato vita a creazioni incentrate sull’organo sessuale femminile con l’obiettivo di “demistificarlo” agli occhi dei suoi connazionali. La vagina allora diventa una trincea, una collina su cui si erge una chiesa, una strada con bancarelle o ancora un’imbarcazione.
Se non proprio l’ “Origine del mondo”, nell’arte di Igarashi l’organo femminile, di quel mondo, diventa almeno parte integrante. Un messaggio forte, quello di Igarashi. In Giappone esistono festival tradizionali dedicati al pene e l’industria della pornografia – soprattutto quella ad uso e consumo maschile – è fiorente. Se si considera poi che il Giappone ha dichiarato illegale la pedopornografia solo poche settimane fa e continua a tollerarla in prodotti “di fantasia” come manga, anime e videogiochi, il quadro è completo. Secondo l’attivista Minori Kitahara, prima donna ad aprire un sex shop per sole donne a Tokyo, infatti, il caso dell’artista ha rivelato un’applicazione piuttosto estesa delle leggi contro l'”oscenità”. “Quella giapponese è una società dove coloro che provano a esprimere la sessualità femminile sono oppressi, mentre quella degli uomini è ampiamente tollerata”.
di Marco Zappa