“La parola è un essere vivente”, scriveva Victor Hugo in Les Contemplations. Ho sempre pensato che avesse ragione. Quanti mondi diversi e schemi di pensiero formano, nella mente di chi le legge o le ascolta, quelle lettere unite le une alle altre da secoli di storia. Parole scritte, parole pronunciate, parole accennate. E, purtroppo, anche parole sbagliate: fuori contesto, offensive, discriminatorie. All’ordine del giorno, spesso inconsapevolmente, campeggiano su titoli di giornale, nella programmazione televisiva, su Internet. E prendono vita, radicandosi in noi, che ci piaccia oppure no.
È una cosa, questa, a cui spesso penso, a maggior ragione quando mi ritrovo a scrivere. Forse anche per questo motivo il lancio del progetto Parlare Civile, promosso dall’agenzia di stampa Redattore Sociale e dall’Associazione Parsec, ha immediatamente catturato la mia attenzione. Si tratta di un approfondito prontuario, frutto di un lavoro complesso durato due anni e sfociato anche in un libro pubblicato da Bruno Mondadori nel 2013, che pone sotto la lente di ingrandimento 300 termini ed espressioni usati dai media e nel linguaggio di tutti i giorni, riguardanti, in modo diretto e non, minoranze spesso discriminate.«L’idea è nata dalla presa di coscienza di quanti termini scorretti o troppo politically correct vengono utilizzati comunemente, ottenendo un effetto negativo e discriminatorio», mi spiega Raffaella Cosentino, giornalista e curatrice del progetto insieme alle ricercatrici Giorgia Serughetti e Federica Dolente. “Il sito, online da nemmeno un mese, è il frutto della volontà di mettere al servizio dei media la nostra ricerca. Non vogliamo censurare o denunciare, ma semplicemente offrire un contributo per un’informazione più corretta attraverso le analisi storico-etimologiche, le statistiche, i modi d’uso e i dati”.
Suddiviso in otto aree tematiche (Immigrazione, Rom e Sinti, Disabilità, Salute Mentale, Povertà ed Emarginazione, Religioni, Genere e Lgtb, Prostituzione e Tratta), Parlare Civile è un esperimento pressoché unico in Italia, una ricerca partita dalla domanda di base: come vogliono essere chiamati i diretti interessati? Ecco che dunque tante espressioni credute politically correct, in realtà di correct hanno ben poco. Come l’espressione “persona di colore”, utilizzata per indicare una persona nera: apparentemente neutro, si scopre invece che questo modo di dire deriva dal periodo della segregazione razziale negli Stati Uniti. Gli uomini di colore erano infatti ex-schiavi e, in quanto tali, non potevano più essere chiamati “negri”, ma al contempo dovevano essere ben distinti dalla popolazione bianca. Ecco dunque la coniazione di questa espressione, alla quale però si aggiunge anche un’altra considerazione: perché solo le persone nere dovrebbero essere “di colore”? Altro campo ricco di scorrettezze riguarda le parole inerenti alla disabilità. Un caso riguarda il mondo della sordità. «Non scrivere che siamo non udenti, scrivi che siamo sordi, semplicemente. A te, che sei udente, piacerebbe se ti definissimo con una negazione, quindi “non sorda”?», mi dissero quando, qualche tempo fa, mi occupai giornalisticamente di alcune loro attività. Quel “non” è infatti vissuto come una privazione della propria identità.
Anche il campo della cronaca presenta tanti casi di parole inadeguate. “Delitto passionale”, ad esempio. Cosa può avere a che fare con l’amore o la passione l’omicidio di una moglie, di una fidanzata o di una ex? In realtà questa espressione affonda le radici nell’epoca in cui il “delitto d’onore”, compiuto dagli uomini, era giustificabile e godeva di attenuanti a livello di legge. La “passione” dell’espressione tende a distogliere l’attenzione dall’unica cosa che davvero unisce tutti gli episodi, ovvero che la vittima è sempre di genere femminile. Di parole ed espressioni da “spulciare”, conoscere e modificare nel proprio modo di scrivere e parlare ce ne sono tante. Fatevi un giro sul sito di Parlare Civile, vale davvero la pena.