Contro la chiusura della raffineria. È un lungo serpentone di ventimila persone quello che sta attraversando in corteo Gela. Non solo lavoratori e neanche soltanto sindacati, ma tantissimi cittadini e le rappresentanze istituzionali della provincia di Caltanissetta sfilano per le strade. L’Eni ha annunciato la revoca di 700 milioni di investimenti e 3.500 posti di lavoro, tra diretto e indotto, rischiano di essere cancellati da progetti di ridimensionamento.
In piazza insieme al segretario regionale della Cisl Maurizio Bernava e alla leader nazionale della Cgil Susanna Camusso ci sono il vescovo di piazza Armerina monsignor Rosario Gisana, che nei giorni scorsi aveva inviato una lettera aperta alla diocesi chiedendo per Gela “non tagli ma investimenti”. In corteo anche i sindaci: quello di Gela Angelo Fasulo, il vicesindaco di Caltanissetta, i primi cittadini di Riesi, Sommatino, Niscemi. Inoltre, i vertici territoriali di Cgil Cisl Uil. Per la Cisl, Emanuele Gallo. Lungo tutto il percorso manifesti ricordano che “Il lavoro è l’unica forma di libertà dell’uomo”. In mezzo alle bandiere sindacali, inoltre, si nota pure quella della sezione Marinai di Gela. A lavoratori e sindacati è anche arrivato un messaggio dell’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi. A chiudere il corteo i Tir del settore agroalimentare.
“Da Gela parte una richiesta precisa: mettere al primo posto il bisogno di difendere con le unghie e coi denti il lavoro che c’è e di crearne dell’altro. Non esiste un’idea di ripresa in questo Paese se non si parte dal lavoro” dice la leader della Cgil, Susanna Camusso. Alla domanda se c’è il rischio che Gela possa trasformarsi in un’altra Termini Imerese Camusso risponde: “Termini Imerese, sia per la Regione Sicilia, sia per il ministero dello sviluppo economico, rappresenta l’incapacità di dare attuazione a un progetto di reindustrializzazione tante volte annunciato. Questo significa non avere un’idea di cosa farà questo Paese. L’industria è stata ampiamente ridimensionata. Ormai siamo più vicini alla soglia critica che alla tranquillità di rimanere il secondo paese industriale d’Europa. Non si può pensare che l’Eni abbandoni uno dei territori più infrastrutturali d’Italia, che per giunta sta in Sicilia, una regione che di solito si dice manchi di infrastrutture e di possibilità. A Gela una soluzione è possibile. Non siamo di fronte a un’azienda in difficoltà. Per il bene del Paese, può decidere di non distribuire dividendi e di investire invece le risorse guardando in prospettiva. Se si vogliono fare scelte di investimenti innovativi, penso al bio-fuel, queste si affiancano non si sostituiscono alla raffineria”.
Al governo nazionale i sindacati – che martedì hanno chiamato allo sciopero tutti i dipendenti del gruppo Eni – chiedono l’apertura di un tavolo di trattative (già convocato per il 30 luglio, al ministero dello Sviluppo economico, con Regione e Comune) perché l’Eni mantenga gli impegni su Gela (i 700 milioni di euro di investimenti per la riqualificazione della raffineria appunto) sottoscritti appena un anno fa, e perché renda noto il nuovo piano industriale che non può e non deve cancellare la presenza e il ruolo dell’azienda in Sicilia.
L’Eni, dal canto suo, pur confermando la crisi del settore della raffinazione del petrolio in Italia e in Europa, smentisce ipotesi di chiusura della raffineria di Gela, sostenendo, invece, di essere disponibile ad aumentare i propri investimenti – si parla di una cifra superiore ai 2 miliardi – su nuovi progetti di sviluppo eco-sostenibile attraverso la produzione di bio-carburanti e lo sfruttamento di nuovi giacimenti di metano e petrolio. Proposte, queste, prontamente bocciate da sindacati, settori tecnici e forze politiche, perché ritenute “insufficienti a garantire gli attuali livelli occupazionali”. “Il rischio – dicono i sindacati- è l’ulteriore marginalità della Sicilia e la desertificazione della città di Gela, che vedrebbe irrimediabilmente compromessi i suoi commerci, le sua crescita e il suo benessere complessivo”. I lavoratori di Gela sono in lotta da 20 giorni e presidiano le vie di accesso alla raffineria perché il timore è che dopo lo stabilimento gelese, con un effetto domino, cadano a uno a uno anche gli altri siti industriali.