Il dramma degli “evacuati” tra i quali dilaga la depressione. I contenziosi in corso contro la Tepco e le famiglie costrette ad abbandonare le loro case. Ma una sentenza potrebbe presto riportare la speranza
“E’ proprio bello qui, vero? Ma davvero non possiamo restare qui a dormire, almeno una notte? Ti prego, fammi questo piacere, chi vuoi che se ne accorga? E poi sopratutto, cosa vuoi che ci facciano, ammesso che ci scoprano?”. Mikio Watanabe , 65 anni, alla fine cede. Di fronte all’insistenza della moglie, Hamako, non sa dirle di no. Forse perché tutto sommato anche a lui fa piacere restare un po’ più a lungo nella sua vecchia casa, una modesta proprietà che da oltre vent’anni aveva trasformato, tra i primi nella zona, in agriturismo. Una casa che il 12 marzo 2011, nel cuore della notte, aveva dovuto abbandonare in fretta e furia, per colpa dell’emergenza nucleare. Ma nella quale spera ancora di tornare. “Non ci fecero prendere quasi nulla, solo una borsa con un cambio e qualche effetto personale – racconta – il ricordo più straziante fu vedere il nostro cagnolino correre dietro al pulmino che ci portava via, nel disperato tentativo di raggiungerci. Poverino, avrà pensato che l’abbiamo abbandonato”. Ma il peggio doveva ancora venire.
Tre mesi dopo l’incidente nucleare, ai Watanabe – che nel frattempo sono stati sistemati in un prefabbricato – viene concesso di tornare a casa per otto ore, di giorno. Le autorità, che continuano a parlare di “evacuazione provvisoria”, sono categoriche: la zona è ancora altamente radioattiva, bisogna assolutamente rientrare prima del tramonto. La signora Hamako, caduta in depressione sin dai primi giorni dopo l’incidente, si guarda in giro “in modo strano”, spiega il marito. Ma poi accende il fuoco, e prepara un tè. “Mangiamo qui, stasera, come ai vecchi tempi – propone al marito che nel frattempo sta ripulendo il giardino dalle erbacce, un gesto spontaneo quanto inutile, viste le circostanze – ho portato con me tutto il necessario, ci metto un attimo”.
Il marito acconsente, come acconsente poco dopo, alla richiesta di fermarsi a dormire. Quando si sveglia, la mattina, sente puzza di bruciato e vede del fumo che si alza dal giardino. In un primo momento pensa che la moglie si sia alzata presto per dar fuoco alle erbacce. Ed in parte è vero. Solo che al centro delle erbacce, dopo essersi cosparsa di cherosene, c’è anche la moglie. I giapponesi quando si suicidano in genere lasciano un biglietto, spesso una lettera vera e propria, scritta in bella calligrafia. Hamako non lascia nulla. “Non ce n’era bisogno – spiega Mikio – ho capito subito perchè l’ha fatto, e cosa dovevo fare io”.
Nel giro di pochi giorni il mite Mikio diventa un leone. Tramite un amico, che peraltro cerca di dissuaderlo come in seguito faranno tutti i suoi familiari – contatta un avvocato: vuole fare causa alla Tepco, la società elettrica che gestisce la centrale di Fukushima. Non tanto per i soldi di un eventuale risarcimento, ma per motivi di giustizia. Vuole che venga accertata giudizialmente la sua responsabilità per il suicidio della moglie. Dopo oltre anni di udienze, rinvii, tentativi anche pesanti di intimidazione e laute offerte di transazione (è il sistema adottato dalla Tepco, che sinora è riuscita a tacitare in questo modo migliaia di richieste di risarcimento) la causa è finalmente arrivata in dirittura finale.
Entro la fine di agosto dovrebbe uscire la sentenza e secondo Tsuguo Hirota, l’avvocato di Watanabe, ci sono buone probabilità che la Tepco venga condannata. “Il giudice è rimasto impressionato dalla determinazione del mio cliente – spiega Hirota – sopratutto dalla coerenza che ha dimostrato sin dalle prime udienze, quando ha spiegato che non era interessato al lato economico, quanto a quello morale. Sono fiducioso. Penso e spero che sarà una sentenza di portata storica, come quando la Toyota, e poi altre aziende, nel 2002 venne condannata per la morte di un suo dipendente per karoshi (“morte da superlavoro”, ndr)”.
Comunque vada, il caso Watanabe è destinato a riaccendere i riflettori sulla tragedia, ancora in corso, di Fukushima e dei suoi abitanti. Un tragedia che i grandi media, sia locali che internazionali hanno di fatto dimenticato, ma che ancora pesa non solo sull’intero Giappone (l’emergenza c’è ancora e c’è solo da sperare che non ci sia un altro forte terremoto) ma sulla vita di centinaia di migliaia di sfollati che hanno perso tutto, speranza e dignità comprese, e che sopravvivono in una sorta di coma sociale irreversibile grazie ad una “indennità” di circa 800 euro che la Tepco (a sua volta rifinanziata dallo Stato) versa mensilmente. “In attesa che si definiscano le varie cause, individuali e collettive, ma anche nella speranza di chiudere con ignobili transazioni o grazie a eventi naturali….”, spiega l’avvocato Hirota, alludendo specificatamente alla morte, naturale o provocata, dei “sopravvissuti”.
Non è facile raccogliere dati credibili sul contenzioso “civile” in corso tra la Tepco (i cui dirigenti sono stati tutti prosciolti in fase istruttoria da ogni responsabilità penale), le autorità locali e i cittadini coinvolti nella tragedia. Secondo il quotidiano Mainichi, sinora la Tepco ha ammesso di aver chiuso extragiudiazialmente 26 casi di morte – sia “naturale” che “volontaria” – direttamente collegati all’incidente nucleare. Ma trattandosi appunto di transazioni, i particolari non vengono rivelati. Gli accordi, in questi casi, prevedono la clausola di reciproca riservatezza, la cui violazione può provocare l’annullamento del contratto. Ma l’impressione è che le cose stiano cambiando, e che l’incidente di Fukushima – “grazie” anche all’arroganza con la quale la Tepco ha sinora gestito la sua immagine – stia cambiando profondamente l’atteggiamento delle vittime.
“In Giappone prevale da sempre il concetto che sia meglio sopportare con dignità le avversità, piuttosto che approfottarne – spiega l’avvocato Yuichi Kaido, che guida il collegio difensivo della prima grande class action nella storia del Paese – ma ora la situazione è diversa. Qui non si tratta di un disastro naturale, come lo tsunami, ma di un incidente provocato da errori e gravi omissioni umane. E’ dunque giusto chiedere, oltre che l’accertamento delle responsabilità, un risarcimento”. L’aspetto più drammatico è quello della sempre più diffusa depressione. Alla famiglie costrette ad abbandonare le loro case, le loro aziende, le loro attività è stato sempre detto che si trattava di una situazione temporanea. Ma ora che la realtà è finalmente chiara, e cioè che il rientro – almeno per certe zone – non sarà possible, la disperazione comincia a prendere il sopravvento e a minare il tradizionale ottimismo dei giapponesi.
Un dato per tutti: mentre a livello nazionale, negli ultimi tre anni, si è registrato un netto calo dei suicidi (meno 11%), nella zona di Fukushima sono aumentati. Dall’aprile 2011, nella prefettura di Fukushima, si sono registrati 1500 suicidi. Certo, non tutti possono e debbono essere legati direttamente alla tragedia nucleare. Ma è altrettanto legittimo ritenere che il numero sia più alto dei 54 ufficialmente riconosciuti dalle autorità come “direttamente legati all’incidente nucleare”. Non resta che sperare che i giudici abbiano lo stesso coraggio che ha avuto il signor Watanabe nel ricorrere a loro. Perché una sentenza “giusta” ed esemplare – c’è davvero qualcuno che possa dubitare del famoso “nesso” tra il suicidio della signora Hamako e l’incidente nucleare?
Aggiornato alle 8.40 del 29 luglio 2014