Ho insegnato italiano agli stranieri di mezzo mondo, ma i ricordi più belli sono quelli legati alle classi stracolme di immigrati – spesso clandestini appena arrivati in Italia – dagli sguardi impauriti, smarriti e infinitamente riconoscenti per una gentilezza inaspettata. Una marea nera, seduta silenziosa ad attendere l’inizio di una lezione che per molti, significava il primo passo verso un lungo percorso di integrazione, sforzi, nuova vita.
Con loro ho ballato la makossa camerunese, mangiato alloco fritto alla ivoriana, sono quasi morta nel provare le salse piccanti e ho visto che senza la differenza c’è un mare piatto di noia e che l’uniformità è incolore. Già. Frase banale, ma non in Italia. Vedere tutte le gradazioni del nero, sentire il ritmo del wolof, condividere un cous-cous con le mani, comprare un pesce essiccato in un mercato asiatico è uno stimolo a viaggiare se non con le gambe almeno con la mente.
Ma per molti italiani non è affatto così. Popolo di emigrati per eccellenza, discriminati e umiliati in terra straniera, dimentichiamo con leggerezza e spocchia da nuovi ricchi il nostro passato e mostriamo poca misericordia per i nuovi poveri che giungono da noi. Una minaccia, un’invasione che in molti modi, e se non altro con indifferenza e disprezzo, si tenta di ostacolare.
Vivo da qualche anno in un piccolo paese di provincia e ho ricominciato a sentire frasi che non ascoltavo più da tempo. “Il mercato non mi piace più. I banchi sono pieni di negri“. Diceva uno. “Bisogna sbiancarli un po’”. Faceva lo spiritoso del villaggio. “Quando li senti parlare in italiano ti cadono le braccia”.
Esternazioni infelici di gente che spesso non ha mai lasciato il paese, intimorita dal nuovo che avanza, notoriamente un pericolo. Professori a casa loro, analfabeti di tutto il resto. Ma sentire il candidato della Figc Tavecchio parlare di un fantomatico ‘Optì Pobà’, giocatore nero che nel suo paese mangiava le banane, non ci può stare.
Non ci deve stare in una società che si proclama – cavalcando l’ondata renziana – pronta al rinnovamento, al #cambiareverso.
E il sostegno dei club – come appare oggi sui giornali – ad un uomo non solo vecchio per l’incarico (alla faccia della sempiterna propagandistica “largo ai giovani”), processato e condannato cinque volte, è l’esempio vergognoso che in Italia ‘cambiamento’ è un utilissimo sostantivo, morto in partenza.
Galliani dice che Tavecchio “non è razzista”, e quindi, con la prassi ritrita – cara ai politicanti italiani – di smentire solennemente dandosi una rassettata pubblica, tutto dovrebbe essere dimenticato.
Ragazzi, ma le parole sono importanti. “Tanto rumore per nulla”, diranno alcuni. “Una battuta goliardica da spogliatoio, niente di più”, difenderanno altri. Forse. Ma il favore di cui sembra godere tutt’ora questo personaggio, che dovrà rappresentare e vigilare il gioco calcio italiano, resta ancora il motivo per cui l’Italia, non è un paese per neri.
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