“Un alieno“. Così il quotidiano israeliano Haaretz, attraverso uno dei suoi analisti di punta, Barak Ravid, descrive il segretario di stato Usa, John Kerry, che non sembrerebbe “il ministro degli esteri della prima potenza al mondo ma piuttosto uno capitato con la sua navicella spaziale in Medio Oriente”. Ravid ammette che Kerry è “un vero amico di Israele”, ma sottolinea anche che il suo comportamento è sembrato di recente “messianico e ossessivo”. Un giudizio confermato da un articolo successivo del quotidiano israeliano, in cui si spiega che, con la sue gestione “avventata“, il segretario di stato avrebbe seppellito ogni possibilità di accordo e preparato un possibile “allargamento delle operazioni di terra” di Israele.
Quello che sorprende, nell’articolo di Haaretz, non è tanto la violenza della stroncatura. La stampa israeliana, soprattutto quella espressione dei settori della destra, ha tante volte criticato l’azione diplomatica dell’amministrazione americana. Quello che stupisce è invece che la critica venga dal giornale israeliano che rappresenta l’opinione più “liberal”, quella che dovrebbe essere, e che nel passato è stata, più attenta alle iniziative di pace in Medio Oriente. Haaretz del resto non è solo. Maariv, altro quotidiano di centro-sinistra di solito assai critico verso Benjamin Netanyahu, scrive che Kerry è “un continuo imbarazzo, con le caratteristiche di una palla di neve. Più gira, più cresce l’imbarazzo”.
In effetti, le ultime iniziative diplomatiche del segretario di stato americano sono state accolte con fastidio dal governo israeliano e da gran parte della politica di Gerusalemme. Quello che non è piaciuto, alla parte israeliana, è già la prima bozza di accordo, presentata da Kerry venerdì scorso, che avrebbe concesso troppo a Hamas e non garantito a sufficienza le richieste israeliane di sicurezza. “Soprattutto, metteva Israele e Hamas sullo stesso piano, e questo ha scioccato i ministri israeliani”, ha scritto sempre Barack Ravid di Haaretz. Quando poi Kerry è partito per Parigi e ha incontrato i rappresentanti di Qatar e Turchia, negoziatori di fatto per Hamas, l’insofferenza israeliana è esplosa. “Kerry ha fatto fallire il piano egiziano e si è rivolto al Qatar, che ha sempre appoggiato Hamas, i Fratelli Musulmani e tutti quei pazzi che combattono in Siria”, ha spiegato un funzionario del governo israeliano.
La stroncatura pare dunque totale, e senza possibilità di appello, per la principale voce della politica estera americana; che, a dire il vero, sperimenta in questi giorni il progressivo venir meno del legame decennale che ha unito Stati Uniti e Israele. Nonostante l’aiuto militare americano a Israele sia negli ultimi anni aumentato, non è un segreto che Obama e Netanyahu non si sopportino, personalmente ancor prima che politicamente, e che il governo di destra israeliano abbia accolto con fastidio le iniziative di pace del presidente Usa: dalle richieste reiterate di congelare gli insediamenti nei Territori Occupati sino al discorso in cui Obama chiese, nel 2011, che Israele tornasse ai confini del 1967, “con scambi territoriali”. Il fatto che il primo abbozzo di cessate il fuoco, quello preparato al Cairo due settimane fa, non abbia praticamente visto l’intervento americano, e che il governo di Gerusalemme abbia anzi esplicitamente chiesto a Washington di non intervenire, è la prova della ormai aperta diffidenza tra gli antichi alleati.
Detto questo, e valutate le difficoltà del contesto, è vero che John Kerry entra sulla scena diplomatica del conflitto di Gaza con un pregresso di episodi che hanno particolarmente irritato il governo di Netanyahu. Di qualche giorno fa è la battuta pronunciata davanti alle telecamere di Fox News, durante una pausa pubblicitaria che ha dato a Kerry l’impressione di non essere ascoltato. “Altro che operazione di precisione, l’escalation è significativa… E’ pazzesco, dobbiamo andare lì”, ha detto Kerry, a un suo collaboratore, con riferimento alla strage nel quartiere di Sajaya. La gaffe diplomatica, secondo alcuni preparata per mandare un messaggio a Gerusalemme, non è stata però niente rispetto alla reazione spazientita che un’altra affermazione di Kerry ha provocato nel governo israeliano. A fine aprile, durante un incontro con la Commissione Trilaterale, Kerry avrebbe detto che “senza un accordo di pace con i palestinesi, Israele rischia di diventare uno Stato di apartheid“. La successiva smentita – “Non ho mai dichiarato che Israele è uno Stato di apartheid o che rischia di diventarlo” – non è riuscita ad ammorbidire l’irritazione di Gerusalemme.
Sulla scena diplomatica del conflitto, Kerry porta del resto una tendenza alla battuta un po’ troppo libera che altre volte, nel passato, lo ha messo nei guai. Nel 1988, durante la presidenza di Bush padre, Kerry disse a una riunione di uomini d’affari che “se Bush venisse ammazzato, i servizi segreti hanno l’ordine di ammazzare Dan Quayle“. Un riferimento alle non eccelse doti politiche dell’allora vice-presidente, che lo costrinse a scuse precipitose. Altro momento difficile venne nel 2006, quando davanti a un gruppo di studenti californiani Kerry spiegò che “studiare è importante. Se non lo fai, finisci in Iraq“. La frase apparve un insulto alle migliaia di giovani americani che combattevano nell’ultima guerra americana e fu duramente criticata da democratici e repubblicani. Kerry, anche in quell’occasione, dovette scusarsi e parlò di una “battuta abborracciata“.
Il personaggio è del resto, da anni, perseguitato dalla fama di politico a suo agio nelle atmosfere ovattate del Senato, ma non dotato di particolare acume né capace di “sporcarsi davvero le mani” in politica. I suoi critici lo vedono come figlio del privilegio – il padre era un diplomatico e la madre un’erede della famiglia Forbes – arrivato alla politica soprattutto grazie all’intraprendenza della prima moglie, la scrittrice Julia Thorne, e rimasto in politica grazie ai soldi della seconda, Teresa Heinz. Il suo approccio aristocratico è stato per esempio vilipeso nel 2004, quando Kerry ha fatto campagna presidenziale, e perso, contro George W. Bush. I suoi sostenitori hanno invece sempre additato il coraggio dimostrato da Kerry in Vietnam, e il coraggio dimostrato poi come oppositore della guerra; oltre alle competenze accumulate in anni di attenzione ai temi di politica estera: dai viaggi in America Latina (anche nel Nicaragua di Noriega, ciò che sollevò molte critiche) al Pakistan e all’Afghanistan.
Barack Obama l’ha voluto al Dipartimento di Stato per ricompensarlo dell’appoggio ricevuto in campagna elettorale (Kerry ha “impersonato” Mitt Romney durante le sessioni di preparazione dei dibattiti televisivi) e probabilmente perché Kerry rappresenta un segretario di stato meno ingombrante di Hillary Clinton. Proprio al Dipartimento di Stato Kerry non pare aver sinora sollevato particolari entusiasmi. I suoi collaboratori gli rimproverano l’eccessiva tendenza a centralizzare, un approccio troppo teorico e le frequenti assenze dovute ai viaggi internazionali. Se pure non sono mancati elementi positivi – per esempio l’accordo raggiunto in Afghanistan tra i rivali alla presidenza – Kerry non pare sinora aver realizzato qualcosa di davvero importante. Le critiche, in certi casi anche gli insulti, rimediati in Israele sulla crisi di Gaza ne sono l’espressione più significativa.