I top manager di industria e servizi hanno guadagnato l’anno scorso 36 volte la busta paga media dei loro dipendenti. E i presidenti che rivestono anche la carica di amministratore delegato sono riusciti a cumulare oltre 83 volte il compenso di un impiegato. A rilevarlo è il rapporto annuale dell’ufficio studi di Mediobanca sui 50 maggiori gruppi quotati, tra cui 40 gruppi industriali, 7 banche e 3 assicurazioni. Dall’Annuario si apprende anche che tra 2009 e 2013 lo Stato e gli enti locali hanno incassato dalle aziende controllate e partecipate dividendi doppi rispetto a quelli arrivati nelle tasche degli azionisti privati. Ma mentre il socio pubblico festeggiava, i lavoratori facevano i conti con i tagli: nello stesso quadriennio Eni, Enel e gli altri gruppi statali hanno infatti ridotto di oltre il 4% l’occupazione in Italia, aumentandola di altrettanto nel resto del mondo. Nel frattempo, d’altronde, pure le aziende private hanno tagliato del 3,2% la forza lavoro dentro i confini nazionali. In compenso, tra delocalizzazioni e internazionalizzazione, i dipendenti all’estero sono saliti del 49,3%. Cambiamento che non è bastato, peraltro, per dare una spinta ai ricavi:
Ai vertici fino a 278 lo stipendio dei dipendenti – Nelle grandi aziende quotate gli apicali, come anticipato, ricevono compensi pari a circa 36 volte il costo medio del lavoro dei dipendenti. Questo senza considerate le stock option, cioè la remunerazione sotto forma di azioni. Il cumulo della carica di presidente e amministratore delegato fa schizzare il rapporto a 83:1. Chi è “solo” amministratore delegato prende invece circa 46 volte lo stipendio di un suo impiegato. Un direttore generale arriva a 21 volte. In un caso, su cui Mediobanca Ricerche e Studi non ha dato altri dettagli, un top manager ha guadagnato in un anno l’equivalente di 278 anni di remunerazione del suo dipendente medio. Sergio Marchionne si aggiudica il primato del cumulo di cariche sociali: sette in tutto nell’intero gruppo Exor. Al secondo posto Monica Mondardini con sei cariche: cinque nel gruppo Cir più un posto nel cda di Atlantia. Terzo è Gilberto Benetton con 5 incarichi (4 nel gruppo Edizione e una nel board di Mediobanca). Cinque posti anche per Francesco Caltagirone, davanti al figlio Alessandro che è a quota quattro. Stesso numero di incarichi per Carlo e Rodolfo De Benedetti, così come per John Elkann, Gaetano Miccichè, Carlo Pesenti e Francesco Starace.
Da Eni ed Enel 8,8 miliardi di dividendi in quattro anni – Il settore pubblico (Stato e amministrazioni locali) ha incassato tra 2009 e 2013 dividendi per 11,9 miliardi, di cui 5,7 da Eni e 3,1 da Enel. I privati hanno invece ricevuto cedole per poco meno della metà: 5,76 miliardi. La classifica? La holding della famiglia Rocca, tramite Tenaris, ha incamerato oltre un miliardo di euro, mentre circa 750 milioni sono affluiti a Leonardo Del Vecchio, che controlla Luxottica, e 650 milioni alla famiglia Prada. Gli azionisti di controllo di Salini-Impregilo hanno incassato 564 milioni grazie al maxi dividendo di 535 milioni del 2012, mentre al gruppo di controllo di Telecom sono andati 511 milioni e alle holding della famiglia Berlusconi 294 milioni. Diego Della Valle grazie a Tod’s ha incamerato 260 milioni. I Benetton ringraziano la holding Edizione che ha girato loro 206 milioni. A seguire, 192 milioni sono passati da Exor alle casse della Sapa degli Agnelli, 154 sono arrivati alla Camfin a capo di Pirelli e 152 al gruppo di controllo della Recordati. Importante il cumulo di dividendi pagati da Prysmian: 333 milioni nel quinquennio.
Tra 2009 e 2013 su del 49% i dipendenti esteri dei gruppi privati. Che riducono l’occupazione in Italia – Lo scorso anno nelle 50 maggiori aziende quotate l’occupazione è rimasta più o meno stabile. Ma la variazione netta nasconde, per quanto riguarda i gruppi pubblici, un aumento della forza lavoro all’estero (+1,1%, soprattutto per effetto del +8,8% registrato dall’Eni) e un calo equivalente in Italia (-1,1%). Allargando lo sguardo al periodo 2009-2013 emerge poi che i dipendenti esteri sono aumentati del 4,6%, mentre dentro i confini nazionali diminuivano del 4,1%. Anche le aziende private, negli stessi quattro anni, hanno assunto all’estero, e con numeri molto più consistenti: i lavoratori sono passati da 280mila a 419mila con un balzo del 49,3%. Al contrario in patria il perimetro dei dipendenti è stato “limato” del 4,3%. Con il risultato che la forza lavoro non domestica è salita, nel quadriennio, dal 55 al 65% del totale. E nella manifattura si arriva al 74,4%. Prendendo in considerazione anche i gruppi pubblici, in cui la quota è salita solo dal 43 al 45%, Mediobanca ha calcolato che attualmente su 100 dipendenti dei colossi industriali italiani 59 sono stranieri o residenti all’estero. Tra i gruppi con il maggiore numero di dipendenti all’estero ci sono Pirelli (90,5%), Salini-Impregilo (90,2%), Parmalat (88,5%), Prysmian (88,1%) e Buzzi Unicem (83,9%).
I gruppi pubblici producono due terzi del fatturato complessivo realizzato in Italia – Limitando lo sguardo all’industria, i 40 gruppi esaminati fatturano 471,8 miliardi di euro, in calo del 5% rispetto al 2012 ma con una crescita del 37,2% rispetto al 2009. Le società con primo azionista pubblico (A2A, Acea, la consociata italiana di Edison, Enel, Eni, Finmeccanica, Hera, Iren, Snam, Stmicroelectronics e Terna) rappresentano poco più della metà del fatturato complessivo, pari a 243,5 miliardi. Di questo, il 58,4% è realizzato all’estero, in gran parte da Eni ed Enel che da sole fatturano oltreconfine oltre 127 miliardi. Ma a colpire è soprattutto il peso dei gruppi pubblici sul fatturato italiano: da queste aziende arrivano 101 miliardi su 154, in pratica i due terzi del totale. Questo nonostante un calo del 3,4% nel 2013, che si confronta comunque con una diminuzione del 4,2% dei ricavi complessivi dei 40 gruppi.
Il fatturato complessivo della manifattura lo scorso anno è calato dello 0,3% se dal calcolo si esclude Chrysler. Con l’azienda di Detroit, che produce negli Stati Uniti ma formalmente rientra nell’alveo Fiat (anche se a breve si trasferirà in Olanda), il valore è invece salito dell’1,5%. Questi dati comprendono però sia le vendite in Italia sia quelle all’estero. Se ci si limita alle prime, la perdita di fatturato arriva al 5,8%.
Per le cinque maggiori banche 48 miliardi di perdite tra 2011 e 2013 – I cinque maggiori istituti quotati, che valgono circa il 50% degli impieghi bancari italiani, hanno chiuso il 2013 in rosso per il terzo anno consecutivo. E nel triennio 2011-2013 hanno cumulato perdite nette per 48,1 miliardi di euro. A pesare sono state la caduta dei ricavi (-15,5% tra 2009 e 2013), la insufficiente riduzione dei costi operativi (-6,7% nello stesso periodo) e la forte crescita delle perdite su crediti (+72,5%). Ma anche gli oneri straordinari per ristrutturazioni e svalutazioni, che nel quinquennio sono arrivati a quota 37,3 miliardi di euro.