Il cielo non ha limiti, le opportunità sì, ma devo provare, prima o poi una stella cadrà anche per me.
Roma Fiumicino, direzione Londra, verso la ricerca di un master appetibile. Vado vado, che non sia mai poi mi viene il rimpianto: “Ah ci fossi andata, a quest’ora non starei a rompere noci e sbucciare uva all’ultimo dei raccomandati” potrei pensare a 60 anni. Quindi sì, meglio che vada.
Atterro, mi sistemo da un’amica e, cartina alla mano, mi dirigo verso il miglior college che potrei voler frequentare. Entro. Sono vestita normale, si dirà ‘da italiana’, o meglio, ‘da sapientina’. Certo non sono in giacca e cravatta o camicetta come tutti miei coetanei che mi sfrecciano a fianco non curanti di una strepitosa quanto enorme fontana che padroneggia il cortile dell’università. Come se al pratone ci fosse la fontana di Trevi. Insomma due minuti e già sudo dall’imbarazzo. Prendo tutte le brochure e vado a parlare con la segretaria per maggiori informazioni. Il biennio costa quanto un mio rene, o forse una retina. Esco, devo riflettere a quale parte del corpo voglio rinunciare. Guardo altri college e dopo 4 giorni, sfinita torno a Roma: bella, immensa, eterna e caciarona.
Che faccio vado? Vabbé ormai ho preso il biglietto, sì vado. Per forza, direi. No, ma magari resto. Alla fine qualcosa si troverà, ci arrangeremo come tutti.
Torno a La Sapienza. Certo non c’è la fontana, non ci sono giacche né cravatte, direi che è già tanto se ci sono le sedie. Siamo troppi, il cielo è non ha limiti, le opportunità sì.
Mio padre mi legge sul viso un po’ di rassegnazione: ‘Posso vendere la terra che ci ha lasciato nonno se vuoi davvero fare quel master’. Lo guardo, pensando che non so se sarei anch’io in grado di amare qualcuno come lui e mia madre amano me e gli rispondo: ‘Va benissimo così. Cadrà una stella anche per me e la renderò la più luminosa’.
Che faccio vado? Vabbé ormai ho preso il biglietto, sì vado. Per forza, direi. No, ma magari resto. Alla fine qualcosa si troverà, ci arrangeremo come tutti.
E allora a ogni meteorite che cade, che ci sembra una stella, lo raccogliamo, lo lucidiamo, finché non si rivela per quello che è, e ci si sgretola in mano: lavori non pagati, viaggi non retribuiti, ore extra nemmeno trascritte. Affannati arruffiamo tutto, ci arrangiamo. La stella può cadere, ma anche restare appesa a un filo. La mia è caduta nel mese di maggio mentre ascoltavo Cyndi Lauper sul tram che mi riporta a casa dall’università. La lucido tutti i giorni, tutte le ore, tutte le sostituzioni, tutte le volte che vado al lavoro.
Che faccio vado? Vabbé ormai ho preso il biglietto, sì vado. Per forza, direi. No, ma magari resto. Alla fine qualcosa si troverà, ci arrangeremo come tutti.
Finché non resterà nemmeno un stella, finché saranno cadute tutte, sarà buio e il cielo ci farà meno paura.