Il governo ha tolto il segreto sull'accordo che, secondo diverse testimonianze, permetteva ai servizi di avere rapporti con i mafiosi in carcere. Un patto rievocato in relazione alle tante stranezze nella dentezione dei due grandi capi di Cosa nostra
Per il presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi non esisteva. Per il suo vice Claudio Fava invece era di fondamentale importanza per ricostruire uno dei passaggi della trattativa Stato-mafia. Per anni l’esistenza del Protocollo Farfalla, ovvero l’accordo segreto siglato dai servizi segreti e dai vertici dell’amministrazione carceraria per gestire i detenuti in regime di 41 bis, è rimasta nell’ombra, circondata più da indizi che da prove. “Questo protocollo non esisteva, magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare” diceva Bindi appena qualche mese fa. “Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa” ribatteva invece Fava.
Opinioni opposte che adesso potranno forse avvicinarsi, dato che il premier Matteo Renzi ha fatto cadere il segreto di Stato sulla delicata questione dei rapporti top secret tra 007 e Amministrazione penitenziaria. Spetterà ora alla commissione Antimafia acquisire la documentazione riservata per approfondire l’indagine già cominciata a Palazzo San Macuto. Una questione delicatissima, che rappresenta probabilmente la chiave di volta per riscrivere la storia degli ultimi anni, e che influenzerà direttamente alcuni processi in corso. Primo tra tutti quello che a Roma vede imputati Salvatore Leopardi, già funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, in passato direttore del carcere di Sulmona: sono entrambi accusati di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo, senza rivolgersi prima all’autorità giudiziaria.
Secondo diverse testimonianze il Protocollo Farfalla prevede proprio questo: la possibilità per i servizi di acquisire in via esclusiva le informazioni provenienti dalle carceri di massima sicurezza, più la garanzia che eventuali visite degli 007 nelle celle dei detenuti in regime di 41 bis rimangano fuori dai normali registri dei penitenziari. Ma perché i servizi d’intelligence dovrebbero avere la possibilità di gestire in maniera invisibile i detenuti? Domanda che poteva trovare una risposta nel processo contro Siciliano e Leopardi, dove però era stato invocato recentemente il segreto di Stato. Adesso la decisione del governo di desecretare gli atti relativi al Protocollo potrebbe dare un nuovo impulso al processo romano.
Ma non solo. Perché tracce dei rapporti borderline nelle carceri affiorano soprattutto nell’inchiesta sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. È a Palermo che per la prima volta si cita in un’aula di giustizia l’esistenza del Protocollo Fantasma. A farlo, deponendo come teste al processo contro Mario Mori il 23 dicembre del 2011, è l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita che raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato. Ardita, durante la sua deposizione, fece cenno anche alle varie manovre di oscura origine attivate nel 2006 per spostare Bernardo Provenzano dal carcere di Terni.
È solo uno dei tanti misteri della detenzione del padrino di Corleone, uno dei registi della Trattativa, poi trovato più volte ferito alla testa nella sua cella di Parma, mentre le telecamere (che per un detenuto al 41 bis devono essere sempre attive) erano spente. “Qui mi vogliono male” sibilò Provenzano durante un incontro col figlio, quando ancora sembrava lucido. Chi gli vuole male? E perché?
L’ombra del protocollo Farfalla si è recentemente allungata anche su un altro boss corleonese, Salvatore Riina, che per mesi ha trascorso la sua ora di socialità nel carcere di Opera (dove il direttore è proprio Siciliano) con Alberto Lorusso, misterioso esponente della Sacra Corona Unita. Nei colloqui col pugliese, poi registrati dalla Dia di Palermo, Totò ‘U Curtu è stranamente loquace, si lascia andare a confidenze su trent’anni di stragi, e arriva ad emettere la sua condanna a morte per il pm Nino Di Matteo. Poi, quando i pm palermitani perquisiscono la cella di Lorusso, trovano decine di appunti scritti in codice, ancora oggi al vaglio dei periti.
A chi scrive in codice Lorusso? E come mai Riina si fida così tanto di lui? Il boss pugliese in carcere non è soltanto un ascoltatore delle confidenze di Riina. In certi casi gli racconta anche fatti inediti, sconosciuti ai più: come quando gli dice che i magistrati di Palermo volevano presenziare tutti insieme all’udienza sulla trattativa per manifestare solidarietà a Di Matteo, dopo le prime notizie delle minacce: proposta, questa, che è contenuta solo in alcune email circolate tra i pm palermitani, poi mai stata messa in pratica e nemmeno divulgata: chi è che la riferisce a Lorusso, che è detenuto al 41-bis nel carcere di Opera?
Una risposta avevano provato a darsela i pm, che quando lo vanno a interrogare gli chiedono di suoi rapporti con pezzi dei servizi, che magari erano andati a trovarlo in carcere. “È meglio non parlare di queste cose” risponde Lorusso, regalando l’ennesimo indizio sui rapporti borderline tra 007 e boss mafiosi. Rapporti regolati da un Protocollo, che da oggi non è più un segreto di Stato.
Twitter: @pipitone87