Il testo di questa canzone di Bob Marley del 1976 è tratto da un discorso di Hailé Selassié, imperatore dell’Etiopia. Ma la guerra di cui parlava è diametralmente opposta da quella che ci circonda oggi: era la lotta di liberazione dei popoli oppressi. Oggi la guerra si fa per tutt’altro.
War in the east,
War in the west,
War up north,
War down south.
Per business, innanzitutto: le spese militari mondiali crescono vertiginosamente. Perché non conosce crisi, la guerra. E anzi spesso viene usata dagli squali del turboliberismo come rimedio alla crisi che colpisce i loro profitti.
Questi alcuni dati del 2013 che l’Iiss (Istituto Internazionale Studi Strategici) ha pubblicato: gli Usa spendono 600 miliardi di dollari in un anno; Cina 112; Russia 68; Arabia Saudita 60; Regno Unito e Francia 57; Giappone 51; Germania 44 e India 36. E noi? Noi siamo al 13° posto con 25 miliardi di dollari, appena sopra Israele che ne spende 18, di miliardi di dollari. Ma alle spese italiane vanno aggiunti oltre 2 miliardi di euro che il ministero dello Sviluppo Economico (sic) spende per fornire armamenti a quello della Difesa e più o meno un altro miliardo di euro per le nostre “missioni di pace“.
In totale, nel mondo, si spendono ogni anno più di 1700 miliardi di dollari per fare la guerra: un ricco bottino.
La guerra si fa per il controllo delle risorse: anche per l’acqua, ad esempio si combatte in Medio Oriente. Per Israele è fondamentale poter controllare gli approvvigionamenti idrici. In città, un palestinese ha accesso a circa 70 litri d’acqua al giorno, (l’Oms raccomanda una media di 100 litri al giorno pro-capite). Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, i coloni israeliani consumano circa 400 litri d’acqua al giorno a persona mentre le comunità beduine tra i 10 e i 20 litri. Il controllo delle sponde del Giordano è per Israele indispensabile.
Fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti (principalmente ma non solo loro) facevano guerre per controllare la produzione di materie prime fossili per l’energia. Oggi, gli Usa hanno raggiunto l’autosufficienza energetica e il controllo delle fonti di petrolio non serve più, ma la guerra rimane uno strumento utile per impedire ad altri di controllare i paesi produttori di petrolio e quindi si fomenta instabilità nei Paesi dove prima si piantava la bandiera a stelle e strisce. Le altre potenze minori, che l’autosufficienza energetica continuano a sognarsela, la guerra continuano a usarla per controllare produzione e distribuzione di gas e oro nero.
Ma c’è un tratto che unisce tutti i guerrafondai, e sarebbe ipocrita non dirlo: la guerra piace. Piace sentirsi forti e potenti, piace vedere il “nemico” straziato, colpito, in fuga. Lo dice la letteratura, ma lo dicono i filmati di chi spara ridendo, di chi gode della violenza, lo dicono le facce dei generali trionfanti e fieri di loro orrendi macelli.
Piace la guerra, in una società dominata dalla cultura machista. E non c’è dubbio che le società contemporanee siano tutte ancora purtroppo impregnate di questa malefica e terribilmente sbagliata interpretazione della forza e del potere. Tant’è che le stesse aberrazioni “culturali” della guerra le ritroviamo a Wall Street, in chi gioca col denaro perché sa che il denaro è potere, in chi gioca con la finanza perché oggi il denaro è dominio e gode a dominare.
Fino a che non riusciremo ad estirpare il godimento dato dall’oppressione non ci libereremo della guerra, che sia quella guerreggiata con i bombardieri o i kalashnikov, oppure quella fatta anche a casa nostra costringendo alla povertà e alla miseria fette sempre più grandi della popolazione.
In molte specie animali la lotta per il predominio nel branco si ritualizza, si fa per gioco, evitando la “guerra”. Ma in tutte chi domina nel gruppo non ne trae vantaggi individuali, il dominio è finalizzato alla sopravvivenza e al benessere di tutti. Nella specie umana (non tutta per la verità), il dominio è divenuto fine a se stesso, per nulla ritualizzato, terribilmente individualistico. Ci sono ancora – per fortuna – società nelle quali il machismo non è cultura dominante, ma sono sempre più marginali. Ma c’è metà del mondo (con qualche eccezione) che machista non è per definizione: la metà femminile.