Nei giorni scorsi il responsabile economico del Partito democratico, Filippo Taddei, ha deciso di capire che scenario si delinea per i prossimi mesi: dal Tesoro gli hanno mostrato stime di un deficit 2014 che al massimo arriva al 2,8 per cento, dal 2,6 previsto tre mesi fa. Niente male, visto che con una crescita così bassa c’era il rischio di ritrovarsi sopra il 3 per cento e dover fare già alla fine dell’estate un intervento di emergenza oppure la procedura d’infrazione europea per deficit eccessivo sarebbe scattata in automatico (se è lo stesso governo nazionale ad ammettere lo sforamento nei suoi conti ufficiali non serve alcuna istruttoria). Invece, miracolo. Merito – forse – della quiete sui mercati finanziari che perdura e di qualche cuscinetto prudenziale lasciato dalla coppia Enrico Letta – Fabrizio Saccomanni. Ma in questi anni di crisi le previsioni, anche sul deficit, non sono mai state affidabili.
Per questo c’è una strategia più sottile che il viceministro dell’Economia Enrico Morando spiega a chi ha la pazienza di addentrarsi nei tecnicismi: “Gli obiettivi di finanza pubblica sono tutti espressi in termini strutturali, cioè al netto dell’andamento del ciclo economico. Che è più negativo di quello previsto. E quindi dedurre dalla bassa crescita l’esigenza automatica di una manovra correttiva è contro la filosofia del nuovo patto di stabilità interno”. Tutto chiaro? In realtà è abbastanza semplice: quando il governo Renzi ha presentato il Documento di economia e finanza, l’8 aprile, ha comunicato che il pareggio di bilancio strutturale (cioè l’obiettivo del deficit a zero una volta tolti gli effetti della recessione) veniva rinviato dal 2015 al 2016 perché c’era la necessità di “rispondere contestualmente alla forte recessione che ha colpito l’Italia nel corso del 2012 e 2013”. Sono servite un po’ di spese straordinarie, dagli ammortizzatori sociali al pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione, e quindi il deficit è salito. Il governo si sente l’animo in pace: ad aprile aveva fatto stime di poco superiori a quelle delle principali istituzioni internazionali, poi le cose sono andate peggio, non per colpa dell’esecutivo che ha anche provato a fare qualcosa per stimolare l’economia (gli 80 euro in busta paga). E ora che la crescita è bassa, Renzi e il suo ministro Pier Carlo Padoan possono dire: Ecco, avete visto? Avevamo ragione noi a rinviare il pareggio di bilancio. Con lo stesso approccio si può sperare di sfangarla anche in autunno, attribuendo ogni scostamento dagli obiettivi alla recessione degli anni scorsi e ala ripresa che non arriva (anche se le riforme annunciate dall’esecutivo dovevano proprio accelerare la crescita). Spingendo all’estremo il ragionamento, si può dire che peggio va la crescita, maggiori margini di manovra ottiene il governo. Ovviamente è tutta un’illusione contabile dovuta alla finta rigidità dei nuovi vincoli europei – inflessibili su carta, impossibili da rispettare nella realtà – ma i problemi restano.
La questione più seria è che ci sono impegni da rispettare qualunque sia il saldo di bilancio finale. A cominciare dai giganteschi tagli strutturali (cioè permanenti) previsti dalla revisione della spesa affidata al commissario Carlo Cottarelli: 17 miliardi nel 2015 che diventano 32 nel 2016. E non è molto chiaro neppure da dove si debba cominciare, visto che Cottarelli non ha ancora resi pubblici neppure i documenti di lavoro sulla base dei quali ha elaborato le proposte. E nessuno sa quali suggerimenti palazzo Chigi sia disposto a recepire.
Da settimane è data per imminente la nomina di una squadra di consiglieri economici per il premier – da Guido Tabellini a Veronica De Romanis – che hanno il primo scopo di trasferire almeno una parte del centro decisionale di politica economica dal ministero del Tesoro a palazzo Chigi. La guerra dei tagli sta per cominciare, i giochi di prestigio contabili aiuteranno ma non basteranno.
il Fatto Quotidiano, 29 Luglio 2014