Dopo L’alba del pianeta delle scimmie affidato nel 2011 a Rupert Wyatt, stavolta alla regia c’è Matt Reeves, già apprezzato per il mostruoso Cloverfield, il vampiresco Blood Story e il serial tv Felicity: “Un rilancio? Diciamo semplicemente un nuovo capitolo della saga, costruito da un punto di vista emotivo. Da bambino ero un grande fan della serie tv: le nuove frontiere che prospettava per umani e primati mi catturavano. E ora eccomi qui, a postulare un mondo dominato dalle scimmie: sarebbe un mondo migliore? Il problema è proprio questo: non esistono ‘migliore di’, viceversa, bisogna perseguire dialogo e integrazione tra uomini e scimmie come tra uomo e uomo”. Nel film, potenziato da un 3d sobrio ma performante nelle scene di battaglia, la comunità capeggiata dal saggio e nerboruto Cesare vive nella foresta di Miur ai margini di San Francisco, mentre gli umani scampati all’apocalisse virale si raggruppano intorno a Dreyfus (Gary Oldman): due leader, destinati a scontrarsi. In mezzo, l’uomo del dialogo, Malcolm (Jason Clarke), che mentre esplora la boscaglia in compagnia della fidanzata Ellie (Keri Russell) e il figlio Alexander (Kodi Smit-McPhee) si imbatte nelle scimmie. Cesare non si fida, ma la minaccia sul suo orizzonte non è glabra, bensì pelosa e dalle leve lunghe, il bonobo Koba (Toby Kebbell): uomini contro scimmie, scimmie contro scimmie, uomini contro uomini, e si salvi chi può. Matt Reeves lavora su queste opposizioni multiple cercando l’introspezione psicologica, provando a farci entrare nel corpo, nella testa e nel cuore di Cesare, i cui occhi aprono e chiudono il film: è lo sguardo dell’utopia, del non conflitto quello che vediamo? “Cesare è un meticcio, sta a metà tra la sua specie e gli umani che l’hanno cresciuto: la sua empatia ci porta a riflettere sulla violenza”.
E sulle attuali ricadute della saga tenuta a battesimo nel 1968 dall’originale di Franklin J. Schaffner, adattamento da Pierre Boulle, il regista insegue il paradigma: “Penso all’apartheid, ma non ho seguito uno specifico parallelismo: Gaza, Ucraina, ognuno può vederci quel che vuole, meglio, quel che prova sulla propria pelle”. Non è facile avere a che fare con queste scimmie, vedere per credere il passo falso di Tim Burton (2001), e Apes Revolution, pur garantendo spettacolo, action e adrenalina, sceglie pathos e immedesimazione per decrittare i meccanismi della violenza antropica, ovvero antropomorfica: “La fantascienza intercetta lo studio dei caratteri, l’analisi dell’essere umano: c’è perfino la love story di Cesare e Malcolm, una storia tragica, soprattutto c’è un’associazione tra empatia e pace”. Ma non crediate a un Cesare gandhiano, una sorta di Madre Teresa col pollice non necessariamente opponibile, perché Reeves e i suoi sceneggiatori avevano in mente altro: “Cesare è il Mosè della sua gente, ma nella sua figura echeggiano anche i re scespiriani e il Padrino don Vito Corleone”. E c’è un’offerta che non si può rifiutare: il film stesso, che con mole da blockbuster (170 milioni di dollari di budget) e incredibili prestazioni in motion e performance capture offre il destro all’apologo umanista, all’umano, troppo umano nicciano dietro i peli di Cesare. Sì, tra i tanti primati di Hollywood c’è anche lui: Ave Cesare!
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