Nel 2012 il Consiglio di Stato ha respinto una richiesta di risarcimento danni, nonostante una sentenza della Cassazione che dava ragione al titolare. Nel 2014, per il giudice estensore, la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione per una vicenda di presunti favori
Accanto ai rottami di ferro da spostare da un cumulo all’altro le gru sono ferme. La Fermet dell’imprenditore di Massa Alberto Ricciardi è in liquidazione da mesi. Eppure fino a tre anni fa fatturava anche più di 200 milioni di euro. Ed era al vertice di un gruppo che dava lavoro a oltre 70 operai, impiegati nella trasformazione di materiali metallici da rivendere alle più importanti acciaierie d’Italia. In passato fu siglata anche un’alleanza strategica con Afv Acciairie Beltrame, un colosso del settore. Poi, in questa che è una delle province più rosse del Paese, una serie di ostacoli burocratici e di azioni del Fisco in seguito ritirate ne hanno segnato il destino. Ma c’è un momento in cui la storia dell’azienda avrebbe potuto essere indirizzata verso un finale diverso.
Il risarcimento negato dal Consiglio di Stato
La data cruciale è l’11 settembre 2012. Da mesi si attende la decisione del Consiglio di Stato su una richiesta di risarcimento danni da oltre 10 milioni di euro presentata da Fermet contro il Consorzio della Zona industriale apuana, l’ente pubblico economico che nel 2001 aveva assegnato senza bando l’area della ex Farmoplant di Massa a un gruppo di imprese guidate da Emanuele Ricciardi, fratello di Alberto e da tempo suo concorrente come patron della Ecoacciai. Ma quell’area la chiedeva da anni pure Fermet per realizzare un nuovo cantiere. La sentenza del Consiglio di Stato viene depositata, e quindi resa pubblica, l’11 settembre, ben sette mesi dopo che i giudici si sono riuniti in camera di consiglio: la domanda di risarcimento viene respinta, nonostante nel 2010 la Cassazione avesse annullato la delibera del consorzio. L’estensore della sentenza è Fulvio Rocco, per il quale a gennaio 2014 la procura di Roma chiederà il rinvio a giudizio con l’accusa di corruzione per una vicenda di presunti favori barattati con il generale della Guardia di Finanza Walter Cretella Lombardo. Un’altra storia, rispetto a quella di Alberto Ricciardi. L’imprenditore viene colto di sorpresa dalla decisione del Consiglio di Stato. “Secondo l’allora vigente strumentazione urbanistica, le attività insediabili sulle aree di cui trattasi erano esclusivamente quelle di industrie manifatturiere, nel mentre Fermet svolgeva, sempre a quel tempo, esclusivamente attività di commercio di materiale ferroso”, scrivono i giudici citando la certificazione della camera di commercio. I magistrati non prendono in considerazione l’elenco di personale e macchinari che secondo Alberto Ricciardi dimostra che la sua attività era di tipo manifatturiero già allora. Come non prendono in considerazione il fatto che la destinazione d’uso dei terreni nel 2001 non fosse adatta nemmeno per le attività del fratello Emanuele, che avrebbero avuto bisogno di una successiva modifica dei piani urbanistici.
Al via il concordato preventivo (nel giorno della sentenza)
Nonostante i dubbi, la sentenza non viene impugnata. Del resto in quel momento Fermet ha altri problemi da affrontare. I conti non vanno più bene come un tempo. Dopo anni di rivalità Alberto si è riavvicinato ad Emanuele, che sembra intenzionato a dargli una mano. Torna la data dell’11 settembre. E’ questo il giorno in cui Fermet presenta una domanda di pre-concordato preventivo con continuità aziendale, finalizzata ad arrivare a un accordo con i creditori senza mettere in liquidazione la società. Le premesse sono buone, ad Alberto Ricciardi spiegano che così salverà l’azienda nonostante le pendenze in quel momento ancora aperte con il Fisco, che sono causa anche del blocco di un consistente rimborso Iva da parte dello Stato. Ma il piano fallirà. Nella procedura di concordato Fermet viene assistita da Giulio Andreani, noto fiscalista della provincia di Massa Carrara e docente di Diritto tributario alla Scuola superiore dell’Economia e delle finanze di Roma, che ha già fatto da consulente all’azienda per la stima dei danni presentata al Consiglio di Stato. Ma ad assistere la società c’è anche Sergio Menchini, docente di Diritto processuale civile all’università di Pisa. Una scelta strana per Alberto Ricciardi, che fino a quel momento riteneva Menchini uno dei responsabili delle sue sfortune imprenditoriali, in quanto presidente del Consorzio della Zona industriale apuana al momento della delibera annullata dalla Cassazione.
Versioni in contrasto
I ruoli di amici e nemici si confondono, si sovrappongono. Che cosa è successo? Alberto Ricciardi assicura di avere appreso solo dai giornali del coinvolgimento di Menchini: “In quei giorni ero in stato confusionale. Così quando l’ho saputo, non mi sono opposto e ho firmato l’incarico”. Menchini spiega di essere stato contattato da Andreani per seguire Fermet: “Poi chiesi a Ricciardi se ritenesse la mia nomina incompatibile con quanto successo in passato e lui rispose di no”. E la sentenza dell’11 settembre, depositata proprio lo stesso giorno dell’inizio della procedura di concordato? “Non sapevo nemmeno che ci fosse una causa davanti al Consiglio di Stato con una richiesta risarcitoria nei confronti del consorzio”, risponde Menchini. Ma l’attuale presidente del consorzio, Cesare Ugolotti, che all’indomani della sentenza della Cassazione tirò in ballo sui giornali le responsabilità dei vecchi vertici del consorzio, ricorda: “E’ passato tanto tempo, ma mi sembra che mandammo una comunicazione ai vecchi amministratori per informarli della richiesta di risarcimento”. Dal canto suo Andreani, che nel 2012 era membro del cda della Ecoacciai, ricorda come Menchini fosse uno dei legali di Emanuele Ricciardi e come in quel periodo i due fratelli si fossero riavvicinati: “Emanuele si era impegnato a immettere nella società tre milioni di denaro fresco per salvarla. Poi è successo che in realtà non ci ha messo il becco di un euro”. Ricostruzione che però l’interessato rigetta: “Non ho mai fatto alcuna promessa. E Menchini per me ha seguito pochissime pratiche, gli avrò pagato parcelle per appena qualche migliaio di euro”. Le loro versioni si ingarbugliano, in contrasto l’una con l’altra. Non sciolgono il nodo di cosa accadde quell’11 settembre. Ma un filo porta dritto alla conclusione della storia: Fermet che è finita gambe all’aria. Emanuele Ricciardi oggi ha la maggioranza nella nuova Ecofermet, che ha affittato un ramo dell’azienda di Alberto, i cui due figli sono anche loro tra i soci. L’obiettivo dichiarato? Fare ripartire le attività. Ma nel cantiere di Carrara che un tempo fu della Italcementi il segno più evidente del nuovo corso non è tanto la ripresa dei lavori. Quanto il colore dei nuovi macchinari: arancione come il colore della Ecoacciai, ad affiancare il blu della Fermet.
Fratelli rivali tra ferro e politica
Passa anche dai simboli aziendali la rivalità mai sopita tra i due fratelli. Che sfocia pure nella politica. Emanuele è del Pd: dice di non essersi mai esposto in prima persona, ma fino all’anno scorso era nella direzione provinciale del partito. Alberto, invece, si è candidato nel 2008 alle comunali per il Pdl di Massa. Dice che la politica non gli è mai interessata: “Mi sono messo in lista solo per rabbia”. Rabbia contro le istituzioni che ritiene responsabili dei suoi guai. E che qui hanno un colore rosso, rossissimo: basti l’esempio del 2008, quando al ballottaggio per il sindaco di Massa sono arrivati due esponenti di centrosinistra, Fabrizio Neri e Roberto Pucci, vincitore del derby ed eletto sindaco per la terza volta. Rivalità. Interessi politici. Niente che restituisca agli operai della Fermet il lavoro perduto. A loro non cambia nulla sapere che quei terreni contesi nel 2001 furono assegnati appena poche ore dopo che le imprese di Emanuele Ricciardi protocollarono la richiesta ufficiale di assegnazione. E che due anni più tardi gli stessi terreni furono rivenduti con una plusvalenza di oltre un milione di euro. “Per quelle aree avevamo firmato un compromesso già nel 1998, poi scaduto per colpa delle lentezze dell’amministrazione – sostiene il patron di Ecoacciai – Dopo che ce le hanno assegnate, non ci hanno più dato le autorizzazione necessarie a installare i nostri impianti. Così abbiamo venduto i terreni e ci siamo trasferiti a Pontedera, dove aree, infrastrutture e cantiere ci sono costati più della plusvalenza incassata”. Storie lontane per chi oggi ha perso il lavoro. Come lontano è quell’11 settembre del 2012. I capannoni industriali in provincia sono sempre più vuoti. Da un lato c’è il mare, dall’altro le cave di marmo.