Un mese e mezzo dopo le prime denunce arrivate a Bruxelles, la confederazione della Camusso rompe gli indugi e fa ricorso presso la Commissione
Anche la Cgil scopre che la riforma del lavoro di Giuliano Poletti potrebbe violare il diritto comunitario. E così, a un mese e mezzo dalle varie denunce sono arrivate a Bruxelles nel mese di giugno presentate da firmatari che spaziano dai due avvocati milanesi dello studio associato Mei & Calacaterra all’Associazione nazionale giuristi democratici, passando per un gruppo di parlamentari del M5S e il sindacato Usb, la confederazione di Susanna Camusso ha deciso di farsi sentire presso la Commissione Ue. Per muovere obiezioni al Jobs Act analoghe a quelle sollevate dai suoi precursori.
Il punto, infatti, è sempre quello: che la riforma del lavoro del governo Renzi sarebbe in contrasto con la prevalente disciplina europea sul lavoro. La Cgil, così come chi l’ha preceduta, insiste su un punto in particolare: la legge 78, eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, “sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della … stabilità dell’occupazione come elemento portante della tutela dei lavoratori”.
Il ricorso fa leva su fonti normative, ma anche su sentenze già emanate dalla Corte di Giustizia europea su normative analoghe, come quella greca che pur faceva riferimento a contratti a causali di durata massima inferiore a quelli oggi introdotti dalla riforma italiana. Quattro, poi, i punti principali su cui si basa il ricorso: la causalità per il ricorso ai contratti a termine rappresentava un argine contro un loro utilizzo improprio. Eliminarne la motivazione lascia spazio a usi impropri che penalizzano il soggetto debole, il lavoratore; il combinato disposto di acausalità, rinnovi e proroghe espone il lavoratore al rischio di non riuscire a firmare mai un contratto stabile indicato come contratto comune proprio dalla normative Ue, con forti penalizzazioni soprattutto per i soggetti più a rischio, lavoratori over 50 e donne; si introduce un’assoluta discrezionalità rispetto ai licenziamenti; non c’è alcuna prova statistica che all’aumento della precarietà corrisponda un aumento dell’occupazione.
L’obiettivo della denuncia, per la Cgil, è quello di “cambiare norme che stanno penalizzando fortemente i giovani e i soggetti più deboli rendendo più vulnerabili socialmente e economicamente generazioni di lavoratori”. La disciplina del nuovo contratto a termine coinvolge già due terzi dei nuovi contratti attivati il che significa che le future occasioni di lavoro non tenderanno alla stabilità. “Al contrario – evidenzia il sindacato di corso d’Italia – la filosofia di Europa 2020 relativa alla strategia per l’occupazione si basa su due concetti: migliorare la qualità degli impieghi garantendo migliori condizioni di lavoro, garantire che la flessibilità sia accompagnata da maggiore sicurezza”. Orientamenti, secondo la Cgil, “totalmente assenti nella Riforma del Lavoro e sui quali chiediamo al governo di porre riparo cancellando quelle tipologie contrattuali fonte di abusi nel nostro ordinamento e riportano i contratti a termine ad un uso funzionale con peculiari esigenze dell’impresa che ne giustificano l’utilizzo”.
“Se il sindacato va in Europa contro il proprio Parlamento la decadenza è inarrestabile”, è stato il commento rilasciato all’Adnkronos da Giacomo Vaciago, consulente economico del ministro del Lavoro. Il ricorso della Cgil alla Commissione Ue “è la conferma di un Paese che non funziona”, insiste l’economista della Cattolica, convinto che “se c’è un problema in Italia è che i giudici fanno politica“. Il meccanismo, spiega, è perverso: “il futuro del Paese prima è in mano al Pretore, alla Cassazione e alla Corte dei Conti e poi, quando perdi tutto, vai in Europa”. Si sta parlando, prosegue Vaciago, di una legge dello Stato e di un sindacato che contro questa legge “non riesce a portare i lavoratori in piazza, perché sono d’accordo” e si rivolge ai giudici. Invece, “in un Paese normale”, la politica “si fa in piazza e quando si va a votare, lasciando perdere i tribunali”. Vaciago, quindi, guarda oltre, alla legge delega che a settembre sarà all’esame del Parlamento: “E’ buona ma un po’ troppo generica e, prima che arrivino i giudici ad occuparsene, è bene che la politica torni a lavorare”. Possibilmente, con una condivisione larga. “Senza evocare il Nazareno, le riforme serie si possono fare con maggioranze più ampie, così poi i giudici di Bruxelles ne possono tenere conto”. L’economista rispedisce quindi al mittente le polemiche sul ritardo accumulato per dare spazio alle riforme in Parlamento: “Siamo in ritardo di trent’anni, non discutiamo di giorni e di settimane”.