Nel 1992, Francesco Francaviglia, andava in quinta elementare. Gli unici ricordi legati a quell’anno, sono i militari per le strade di Palermo e gli inviti insistenti della madre che lo invitava a non metter naso fuori di casa a San Giuseppe Jato. Delle “donne del digiuno” lui non ne sapeva niente. La mafia l’aveva conosciuta quel giorno che avevano ucciso lo zio, Luigi Aiavolasit. “Tante volte avevo provato a chiedere a mia madre di suo fratello, non c’ero mai riuscito. Poi, un giorno, ho deciso di tornare a San Giuseppe, ho iniziato un viaggio nel cuore della Sicilia che non si è mai rassegnata, il cuore delle donne, le donne del digiuno”, spiega il fotografo Francaviglia che dal 18 luglio al 23 agosto espone a Palazzo Ziino, a Palermo, i volti di queste testimoni di un tempo mai finito. 

 

Primi piani di donne che non nascondono le loro rughe, i loro capelli canuti, il loro sguardo talvolta malinconico, la loro storia iniziata tre giorni dopo quell’esplosione che massacrò il procuratore Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il loro “manifesto” era un volantino appeso per le strade di una città che in quelle ore aveva cambiata volto, qualcuno l’aveva persino definita la “nostra Beirut”: “Iniziamo oggi pomeriggio con un presidio a piazza Castelnuovo uno sciopero della fame, come cittadine di Palermo al di là delle appartenenze ad associazioni o partiti, che continuerà fino a quando il prefetto Jovine, il capo della polizia Parisi, il procuratore Giammanco, l’alto commissario per la lotta alla mafia Finocchiaro, il ministro degli interni Mancino, non si dimetteranno”.

Ventidue anni dopo quelle donne, alcune erano ragazze, si sono “ritrovate” grazie al lavoro di Francaviglia. Alcuni sono volti noti: Pina Maisano Grassi, moglie di Libero, l’imprenditore ucciso per essersi ribellato al pizzo; Simona Mafai, storica capogruppo comunale del Pci; la fotografa Letizia Battaglia; l’ex sindaco di San Giuseppe Jato, Maria Maniscalco; Michela Buscemi, nota per essersi costituita parte civile al maxiprocesso dopo la morte dei suoi due fratelli; Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento Europeo e la cantante Giovanna Marini, giunte da Roma per partecipare all’iniziativa delle palermitane. Altri sono ritratti di donne che hanno continuato la loro “resistenza” in una classe di scuola, in un ufficio della Regione, in un quartiere difficile come quello dello Zen: Bice Salatiello, Virginia Dessy, Anna Puglisi. Tra loro anche il volto di Rita Borsellino, la sorella di Paolo; lei non c’era in piazza Castelnuovo ma quel manifesto non la lasciò indifferente: “Stavo andando a trovare mia madre, tre giorni dopo la strage e quel volantino mi colpì. Quelle donne stavano chiedendo ai rappresentanti di quelle istituzioni un cambiamento”.

Due decenni più tardi resta la rabbia. Le sirene, le voci della vedova Schifani, di Riina, che Francaviglia, ha voluto facessero da sottofondo all’esposizione, non lasciano in pace il visitatore. Quei ritratti sembrano interrogare ancora una volta qualcuno, come ben afferma nella presentazione della mostra Franca Imbergamo, magistrato della Procura nazionale antimafia: “Rivedere oggi quei volti significa misurare tutto il dolore e l’orrore di quanto è accaduto, e l’immane vuoto di verità che, ancora oggi, nonostante tutto, avvolge le stragi”. Forse questa mostra, che dal 13 ottobre al 9 novembre sarà alla Galleria degli Uffizi a Firenze, dovrebbe disturbare chi siede al Senato o alla Camera perché come scrive la Imbergamo “superata l’angoscia collettiva, il messaggio delle donne del digiuno è stato accantonato dalle istituzioni politiche, mascherando il cinismo con l’esigenza di passare alla fase della costruzione razionale della risposta dello Stato”.


La testimonianza di Franca Imbergamo, magistrato della Procura nazionale antimafia
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Quante strade ha la ricerca della verità? È la domanda che sorge immediatamente dalla visione dell’opera di Francesco Francaviglia sulle Donne del digiuno. Domanda che investe, inesorabilmente, innanzitutto chi come me fa il magistrato nella Procura nazionale antimafia, l’ufficio voluto da Giovanni FalconeA distanza di tanti anni da quel terribile 1992 a Palermo, e poi 1993 a Firenze, Roma, Milano, i volti delle donne del digiuno riemergono, attraversati dal tempo ma ancora febbricitanti di passione civile. Ci sono gesti che segnano una vita intera e il digiuno a piazza Castelnuovo delle donne di Palermo ha segnato la loro, talvolta anche al di là di quanto esse stesse potessero immaginare. Donne di differenti età, esperienza civile e politica, accomunate da un gesto di ribellione plateale all’ingiustizia dell’esistente, che avrebbero poi proseguito su strade diverse, alcune tra loro vicine, altre inconciliabili, eppure portandosi addosso il segno di quel digiuno per la dignità del vivere civile.

Rivedere oggi quei volti nelle foto di Francesco Francaviglia, significa misurare tutto il dolore e l’orrore di quanto è accaduto e tutto l’immane vuoto di verità che, ancora oggi, nonostante tutto, avvolge le stragi. Nel buio dietro i visi e nelle parole mute del back stage è possibile intravedere le ombre di chi ancora non e’ stato inchiodato alle proprie responsabilità, non solo giudiziarie. E accanto con identità e storie conosciute i volti di chi ha perduto la propria vita, spazzati via dalla ferocia di un preciso disegno stragista. Vittime a cui non bastano i nomi degli uomini di Cosa Nostra condannati, ma che attendono di sapere ancora qualcosa. I volti che parlano senza un suono e gli occhi delle donne ritratte raccontano, infatti, meglio di mille discorsi retorici cosa è accaduto nel nostro Paese tra il 1992 e il 1994: il 23 Maggio Capaci, il 19 Luglio via D’Amelio, il 14 maggio 1993 il fallito attentato in via Fauro a Roma, il 27 maggio via dei Georgofili a Firenze, il 27 luglio via Palestro a Milano, il 28 luglio San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, sino al fallito attentato allo Stadio Olimpico a Roma del 23 gennaio del 1994.

Una scia di sangue che non si interrompe nell’estate siciliana del 1992 e sale lungo la penisola, nei luoghi simbolo della vita della nazione per seminare il terrore, forse gattopardianamente, per cambiare tutto senza cambiare nulla.  La lezione civile e politica dell’esperienza delle donne del digiuno è stata profondamente innovativaAndare in piazza, mettere in discussione il proprio corpo e la propria vita con il digiuno ha significato lanciare un messaggio di ribellione, di necessità di rivoluzionare l’esistenteQuesto messaggio, però, è stato accolto solo in minima parte, è mancata la volontà e la capacità di tradurlo in presenza critica nelle istituzioni. La carica ideale, plasticamente raffigurata nelle modalità fisiche, corporali della protesta chiedeva un cambiamento degli equilibri di potere che non c’è stato. Superata l’angoscia collettiva, il messaggio delle donne del digiuno è stato accantonato dalle istituzioni politiche, mascherando il cinismo con l’esigenza di passare alla fase della costruzione razionale della risposta dello stato.

Sono state, quindi, varate leggi che delegavano alla Magistratura la soluzione del problema mafia, salvo poi fare delle repentine retromarce quando le indagini hanno cominciato ad affrontare il tema delle collusioni istituzionaliSi è preferito alimentare il mito della forza militare ed economica delle mafie, tralasciando di considerare come tutto ciò sia strettamente legato alle non occasionali connivenze della politica e delle Istituzioni. Le donne del digiuno avevano fame di giustizia e di cambiamento, ma mentre loro protestavano in piazza, esponenti dello Stato, come ormai evidenziato dalle indagini più recenti, organizzavano piani di depistaggio, volti a nascondere la verità. L’antimafia della società civile, poi, è stata ben presto soffocata dalla retorica, accanto ai tanti che generosamente si impegnano si sono insinuati troppi ambigui portatori di interessi personali .

Rimane la forza simbolica di quel gesto di piazza Castelnuovo che oggi rivive intera nell’opera di Francesco Francaviglia. Impossibile scindere la qualità delle fotografie dalla profondità dell’esperienza di chi è stata ritratta. Si tratta, infatti, di una testimonianza artistica profondamente vera, leggibile a diversi livelli, capace di comunicare in maniera implacabile i sentimenti delle Donne del digiuno e di tutti coloro che hanno cercato di trovare la risposta alle loro domande. Alla fine del carosello di immagini fotografiche, rimane, prepotente, nello spettatore il bisogno di sapere, di andare al di là dell’oscurità e della palude su cui sembrano galleggiare i volti ritratti.

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