“Un manufatto come la Costa Concordia, ora solo un enorme peso per il nostro Paese, utilizzata per la costruzione edile potrebbe diventare una risorsa, invece di un enorme ostacolo di 290 metri”. Questa la tesi, in senso tecnico, discussa da una ragazza appena laureata in Architettura giusto qualche giorno prima che il comandante Schettino tenesse la sua lectio magistralis alla Sapienza, finita tra mille polemiche. Non era poi così scontato, in effetti, che il relitto che è stato la vergogna dell’Italia diventasse all’improvviso un affare per tanti e un’occasione di rilancio per l’industria nautica caldeggiato dal governo Renzi. Mentre ancora si cerca il cadavere dell’ultimo disperso altre squadre si preparano invece a smantellare tutto per riconsegnarlo a pezzetti all’industria del riciclo. Dalle 50mila tonnellate di acciaio si potrebbero ricavare tondini e travi per l’edilizia, aveva spiegato il re dell’acciaio Antonio Gozzi, che con Duferco è in partita per metterci sopra le mani, a prezzo concordato.
Ma c’è chi ha pensato a un uso molto diverso. A una Concordia che muore come nave e rinasce come quartiere di edilizia sociale a Savona. E dunque non si disperde con la sua storia tragica ma resta per sempre a terra, a futura memoria del significato più profondo della sua storia. A sognare questo destino per il gigante caduto sull’inchino è stata una studentessa di architettura del Politecnico di Milano insieme ai suoi docenti. La tesi l’ha appena discussa e quasi le viene un gruppo in gola a pensare che il relitto sarà sezionato e fatto confluire, bullone dopo bullone, nell’industria del ferro e dell’acciaio. Federica Maserati, 28 anni piacentina, ha anche deciso di pubblicare il suo studio sul portale Europaconcorsi perché ci crede ancora, nonostante l’interesse pubblico e privato sia rivolto da altre parti.
E del resto ha dovuto lavorare sodo per dare il crisma della sostenibilità all’operazione che immagina come una sorta di risarcimento collettivo. Ha iniziato a frequentare gli hangar di Fincantieri quando ancora la Concordia sembrava incollata all’Isola del Giglio. E’ lì che fa i primi studi sulle caratteristiche costruttive della cruise e inizia a tracciare gli elementi del progetto.
“Mettendo insieme il materiale recuperabile della Concordia si potrebbe costruire una cittadella di 2mila abitanti. Anche l’allestimento, che non risulta danneggiato, potrebbe essere riutilizzato compresi i materiali di pavimentazione e controsoffittatura”. E i muri? Potrebbero essere ricavati sfruttando la maglia strutturale 8X8 comunemente impiegata sulle navi da crociera che regge carichi verticali e sollecitazioni orizzontali, che si sviluppano su un’altezza di 70 metri, suddivisa in 13 differenti piani orizzontali. Da qui, verrebbero fuori edifici da 10 piani in sù. Seguono calcoli dei carichi, tavole prospettiche, sezioni e disegni del complesso e delle unità abitative che per concezione riflettono i principi di standardizzazione elementare di Gropius.
“Le cellule abitative progettate sono il frutto di un’aggregazione modulare di due o più elementi che, uniti, compongano alloggi idonei a formare edifici residenziali pluripiano capaci di rispondere alle diverse esigenze stilistiche dei modelli insediativi moderni”. C’è allora il bilocale, composto da tre quadrati, il trilocale composto da quattro, il quadrilocale da cinque. Il tutto con costi di realizzazione abbattuti del 50% rispetto a una costruzione tradizionale.
Bellissimo. Ma dove? Federica ha immaginato la sede naturale a Savona per due ragioni. Primo perché la città prevedeva la riqualificazione di un distretto con l’aggiunta di social housing per il 33% della superficie agibile ed accessoria. Secondo per la possibilità di trasporto via mare del materiale prodotto dallo smantellamento del relitto, riducendo ulteriormente il costo della materia prima. E su una piazza che ha un nome che parla a tutti. “Piazza del Popolo si presenta oggi come una distesa di asfalto assediata da quasi 300 auto in sosta. Prima dell’industrializzazione novecentesca ospitava magnifici orti suburbani, come nella sponda Ovest di orti Folconi, dove ora invece si ha un classico vuoto urbano dall’indubbia classificazione”.
Le due aree si trovano di fatto l’una di fronte all’altra, ma nell’impossibilità di un dialogo diretto, essendo separate da un torrente (il Letimbro) che funge da spaccatura tra le parti. “Come anche sollecitato dal Piano Urbanistico Comunale, il concetto che sta alla base della mia idea progettuale è il collegamento dei due ambiti, cercando di ristabilire un dialogo tra il centro cittadino e quella che è stata definita l’immediata periferia”. E il senso di ricucire una storia e delle vite, coi resti del gigante che le ha divise, c’è tutto.