I fatti: un uomo di 60 anni abusa ripetutamente di una bambina di 11, che gli era stata affidata. La polizia li trova nudi nel letto, quindi lo arresta in flagranza di reato. In appello lo condanna a 5 anni. Giustizia è fatta, quindi. Ovviamente si tratta di un terribile caso di pedofilia, tra i tanti che accadono ogni giorno in poveri e lontani paesi del sud o est del mondo. Invece no. Siamo in Italia, a Catanzaro, lo scorso anno: l’uomo lavora (se si potesse fare dell’ironia su un caso così terribile), nei servizi sociali. Non è finita qui, però. La difesa dell’uomo ha fatto ricorso in Cassazione obiettando che in appello non fossero state discusse a sufficienza le richieste di attenuanti che si riferivano al risarcimento di 40.000 euro previsto dalla legge e al fatto che tra l’uomo e la bambina ci fosse una ‘relazione amorosa’ (così è scritto negli atti). La Cassazione ha accolto il ricorso e il processo è dunque da rifare. La notizia, (e la questione lessicale e semantica della sentenza), non ha fatto lo scalpore che merita, ma non è sfuggita a chi lavora da anni sulla violenza maschile, sul linguaggio che indirettamente la giustifica e sugli abusi degli adulti.
Così Cristina Obber, autrice tra l’altro di Non lo faccio più, per fare pressione in vista del processo e sensibilizzare l’opinione pubblica non tanto e solo sui fatti, ma sul tema del linguaggio e delle giustificazioni fornite fin qui nella sentenza. Margherita Giancotti, psicologa clinico-forense, così scrive commentando il dispositivo: la United Nations Guidelines on Justice in Matters Involving Child Victim and Witness of Crime (2009) sottolinea come uno dei diritti fondamentali del minore vittima sia il diritto alla riparazione. Claudio Foti (2004) sottolinea come “la riparazione s’accompagna alla necessità di un riconoscimento sociale e anche, se possibile, giudiziario dell’accaduto”.
Il bambino vede riconosciuto il suo status di vittima e questa consapevolezza pone le basi per il difficile lavoro emotivo e psicologico di superamento del trauma. Dov’è finito il diritto alla riparazione di questa bambina che vedrà scritto sulla sentenza che in qualche modo è stata compartecipe del tremendo abuso subito? Dove hanno mancato gli adulti incaricati a proteggerla? Cristina Obber nella lettera inviata alla Presidente della Camera Boldrini, nella quale informa di essersi rivolta al Ministero della Giustizia e all’Associazione Magistrati, scrive: “La petizione chiede rispetto per la dignità dei bambini e delle bambine, linguaggi adeguati che non infliggano loro ulteriori violenze. Probabilmente se un ragazzino a scuola scrivesse ‘relazione amorosa’ in un tema sulla pedofilia i genitori verrebbero convocati d’urgenza e il tema stracciato. Possibile che invece nei nostri tribunali si scrivano e trascrivano atti con un linguaggio così lesivo e paradossale? E’ una domanda terribile, che chiede una risposta”.