Mi imbatto in due mamme: la prima ha tre figli. Il più grande, sui dieci, è di quei bambini che nonostante la crescita, restano puerili nei modi, timorosi di tutto, esitanti nel vasto mondo, soprattutto negli spazi sconosciuti. Nel parco c’è uno scivolo più alto del solito, di quelli come una volta, in acciaio. Mia figlia di quattro anni, davanti a lui, scende senza problemi, ma lei c’è già stata molte volte. Lui no, ha paura e si blocca. Cerca con lo sguardo la mamma e piagnucolando le confessa che non riesce a scendere. Lei è già nervosa, con quel capriccio sta intasando la fila, ci sono altri bimbi che aspettano dietro di lui. “Finiscila, sei sempre il solito. Non hai visto quella bambina più piccola di te come è venuta giù? Muoviti, vieni giù. Dai, dai, daaaiii!
Lui non si schioda e lei, in malo modo, lo fa scendere dai gradini stiracchiandolo un po’.
La seconda mamma mi si presenta cinque minuti dopo. All’uscita del parco mi fermo per attraversare la strada. Uno strillo attira la mia attenzione: “Cretino!” Sta avanzando sul marciapiede con il figlio. Nel tentativo di starle dietro, sporca la camicia del gelato che stava mangiando. “Non sei neanche buono di mangiare un gelato”. Il bimbo, a testa china, incespica e inizia a singhiozzare.
La cattiveria e la bontà non hanno sesso eppure, nel sentire collettivo, quando è una madre a umiliare o maltrattare i propri figli, il biasimo nei suoi confronti è maggiore rispetto ad un padre.
Quando la cronaca porta in prima pagina crimini contro minori, l’opinione pubblica è maggiormente sbigottita quando è la madre ad esserne l’autore. Chi non ricorda l’onda mediatica e l’interesse ossessivo che per anni ha avvolto la vicenda di Cogne?
Nel 1954 vinceva il festival di Sanremo il brano ‘Tutte le mamme‘. Ancora trent’anni dopo, nel saggio finale di terza elementare, le maestre ci fecero cantare sul palchetto di legno, di quelle donne quasi virginali, pure immagini di bontà. In fondo, in fondo, quanto ancora crediamo che “son tutte belle le mamme del mondo“?
E’ convinzione diffusa che l’amore materno sia un fatto inappuntabile e vivo in ogni donna, incapace – per natura – di bassezze, anche morali, verso i figli.
Per decenni, in Italia, l’unico ruolo socialmente riconosciuto, ad appannaggio esclusivo delle donne, era proprio quello di nutrice, angelo dal sorriso buono, rassicurante e amorevole.
Questa irreale sindrome di virtù materna – soprattutto ora che i ruoli sono cambiati e i padri sono molto più presenti – genera scompensi nelle donne moderne.
Qualche settimana fa parlavo con un’amica. Quando il figlio era ancora piccolo, non se l’è sentita di perdere il posto precario ed è tornata a lavorare, alternando contratti a tempo determinato. In questo momento è a casa e riprenderà a settembre. Conversando, mi raccontava di quanto fosse dura la disoccupazione, gestire la casa e il bimbo. Ma subito dopo questa confidenza, ha cercato di giustificarsi dicendo che “il suo piccolo era tutto per lei”. Non ho pensato neanche per un secondo che potesse essere altrimenti, tuttavia ha sentito l’urgenza di scusarsi.
La zavorra di un confronto – anche fittizio – con uno spettro di perfezione causa frustrazione e la paura del giudizio del mondo esterno.
Ti senti in colpa se dopo una gravidanza torni a lavorare, se resti a casa ma sei scontenta, se a quarant’anni non hai ancora procreato o se lo hai fatto ma eri troppo vecchia.
Riusciremo mai a liberarci dal senso di colpa? L’aspettativa di essere qualcosa di più, diverse, migliori di chissà cosa poi, è una fortezza che spesso costruiamo noi. La percezione del proprio ruolo nel mondo e la conquista dei nostri desideri è un lungo processo che scardina vecchi riferimenti radicati. Ma è una strada che va intrapresa.
E pazienza se nel far questo assomiglieremo un po’ meno a delle Madonne.