La crisi del sistema dominante segna la fine di un’epoca, non è una fase di quella esistente. Il capitalismo non è in grado di mantenere le sue promesse: sradicare la povertà e la fame, assicurare la giustizia sociale, rispettare l’ambiente, sanare il divario Nord-Sud. Difende con la guerra il “suo” diritto alle risorse naturali del Sud e del Nord, saccheggia così la natura e identifica la qualità della vita con il “benessere” economico. Per le persone in carne ed ossa, questo significa la perdita di ogni possibilità di incidere sulle proprie condizioni di vita e di lavoro, di decidere di sé e del proprio percorso di vita: è così diventato “normale”, ad esempio, mettere a rischio la salute e perdere la vita sul posto di lavoro.
La democrazia rappresentativa di matrice novecentesca, legata allo stato nazionale e ai partiti politici come cerniera fra i cittadini e lo stato, non basta più nella globalizzazione. Le persone non sono in grado di difendersi, mentre la Terra è sull’orlo del collasso per l’eccessivo consumo di risorse naturali sia dal lato del prelievo che da quello delle emissioni e dei rifiuti. Ma i governi sono insensibili alla domanda di democrazia reale proveniente dalla popolazione e ciechi di fronte alla relazione tra crisi ecologica e crisi economica: disoccupazione e corruzione dilagano, ma loro – i governi e i banchieri europei, ad esempio – si occupano al massimo di “mitigare” le politiche di austerità, non di risanare il pianeta e l’economia.
La sconfitta della sinistra subita negli ultimi decenni in tutto il mondo e soprattutto in Europa – la culla della democrazia occidentale -, ha permesso alle classi dominanti di cancellare le conquiste sociali e culturali del Novecento e di eliminare dal dibattito pubblico non solo gli operai ma anche le classi popolari e la loro cultura, dando vita a una inedita divaricazione sociale tra il 99 e l’1 per cento della popolazione. La sinistra politica e sindacale non ha saputo/voluto ristrutturarsi di fronte alle sfide della globalizzazione e ha così favorito il neoliberismo e le politiche di austerità, difendendo male (e perciò inutilmente) i soli lavoratori “garantiti”. Ha aderito all’ ideologia capitalista del mercato e a quella industrialista dello sviluppo basato sul consumo di massa, favorendo la separazione tra vita e lavoro, tra economia e società, rendendo così evidente di non essere in grado di svolgere il ruolo storico di difesa degli esclusi. In Italia, ad esempio, il “glorioso” Partito comunista italiano si è dissolto con la caduta del Muro di Berlino, facendocene cadere addosso le macerie.
L’alternativa – In tutto il mondo la gente è in cerca di alternative. Le comunità e i movimenti del Sud e del Nord – quale che sia il nome da esse assunto e la rivendicazione in cui sono impegnate, dalla lotta contro la recinzione della terra a quelle in difesa della salute – costituiscono un vasto movimento di resistenza, che resistendo propone le alternative. Questo movimento oggi si chiama “movimento dei commons”, ma anche la definizione dei commons è controversa tra gli studiosi, e c’è il rischio che questo movimento sia usato per consolidare il sistema esistente, anziché per trasformarlo. Raramente le lotte delle comunità e dei movimenti hanno successo, ma anche quando lo hanno, difficilmente riescono a modificare l’ordine sociale esistente per l’opposizione sia delle classi dominanti che della popolazione. Tre secoli di capitalismo hanno plasmato il senso comune e hanno dato vita alla “demonizzazione del passato”. E’ così diventata dominante la convinzione che il passato sia tutto da buttare, in particolare le comunità locali e i rapporti di prossimità che esse incorporano, sostituite dalle più “confortevoli” comunità virtuali di internet. “Allora c’era la fame e la guerra”, questa la motivazione addotta: ma le dinamiche vanno viste a livello planetario, e allora si capirebbe subito che la fame e la guerra ci sono ancora, ma si sono spostate soprattutto nei paesi del Sud del mondo.
Il collettivo di CNS-Ecologia Politica auspica un localismo cosmopolita, che dovrà essere definito dagli esperti (ad esempio costituzionalisti) insieme alle comunità locali in lotta (che sono moltissime in tutti i paesi e lavorano su una grande ventaglio di problemi – dalle mamme vulcaniche in Campania, alle comunità rurali del Nord e del Sud, alle “comunità dell’acqua, dell’energia e dell’acciaio”. Vedi, su quest’ultimo punto, le lotte della comunità dell’Ilva di Taranto e di quelle della Vale – la multinazionale brasiliana del ferro, che fornisce anche all’Ilva di Taranto – raccontate recentemente in due video, uno dell’Espresso e l’altro del Seminario internazionale tenutosi in Brasile lo scorso maggio. La definizione dei poteri delle comunità ecologiche e dei movimenti sociali non sarà affatto semplice, dipenderà dalle occasioni e richiederà i tempi lunghi necessari per il superamento delle resistenze. Nessuno pensa del resto che nelle comunità non ci siano problemi e contraddizioni, ma la democrazia reale bussa alle nostre porte.
Di Giovanna Ricoveri per il collettivo di CNS-Ecologia Politica