Nel post dello scorso 2 agosto, abbiamo parlato del gioco d’azzardo nel medioevo e di come veniva gestito, facendo anche qualche parallelo con l’attuale situazione italiana, caratterizzata da una dilagante epidemia di azzardopatia indotta dal comportamento criminogeno e incosciente dello Stato Italiano, che per favorire gli interessi dei soliti noti se ne infischia della distruzione del tessuto sociale. È un’altra conseguenza del dilagare di una finanza globale, senza più limiti, senza più regole, senza più etica.

Però vale la pena secondo me capire come si giocava d’azzardo nei secoli passati.
Dicevamo intanto che nel XIII e XIV secolo, prima dell’avvento della carte da gioco, l’azzardo equivaleva ai dadi. Si praticavano vari giochi, ma il più diffuso era la Zara (che deriva dall’arabo az-zahr, come la stessa parola azzardo), tanto che ne parla anche Dante nella sua Commedia.

Purgatorio, Canto VI. Dante è nell’Antipurgatorio, le anime lo attorniano cercando favori.

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.

Al termine della partita il perdente rimane triste e solo e continua a lanciare i dadi, cercando di darsi ragione della sconfitta. Tutta la gente va dietro al vincitore e lo circonda. E il vincitore non si ferma, ascolta, porge la mano, cercando di difendersi dalla calca. E infine Dante che era nella stessa situazione, nella turba guardava questo e quello, faceva promesse cercando in questo modo di sottrarsi alla calca. Grandissimo.

Ma capire come si giocava a Zara è cosa tutt’altro che semplice, i manuali moderni danno in genere solo qualche cenno non sufficienti per giocare davvero. Un’interpretazione plausibile è la seguente.
Si gioca in due, un giocatore fa il Banco e tira i dadi, che son sempre tre. I possibili totali vanno dal minimo di 3 (1-1-1) al massimo di 18 (6-6-6). Ora i risultati più bassi e più alti (dal 3 al 6 e dal 15 al 18) vengono chiamati AZAR (che è il nome spagnolo del gioco), i risultati centrali (dal 7 al 14) vengono chiamati SORTI.
Teniamo conto che i possibili esiti del lancio di tre dadi sono 6x6x6=216. Di questi 40 sono azar (18,5%) e 176 sorti (81,5%)… magari un’altra volta ci dilungheremo sugli errori che venivano fatti all’epoca nel calcolo dell’esito del lancio di tre dadi.

Comincia la mano di zara e il banco tira i dadi:
– se fa un azar, vince e la mano è finita;
– se fa una sorte, il numero uscito viene attribuito all’avversario e ritira i dadi.
Nel secondo caso il banco fa il suo 2° tiro:
– se fa un azar (a questo punto sarebbe un re-azar), perde e la mano è finita;
– se fa la stessa sorte di prima la mano è nulla e si ricomincia;
– se fa una sorte diversa la attribuisce a sé stesso e ritira i dadi.
Nel terzo caso il banco continua a tirare i dadi finché non esce una delle due sorti prima determinate: se esce quella dell’avversario, il banco perde; se esce la sua, il banco vince.

A quelli che hanno un po’ studiato i giochi di dadi e la loro matematica penso che questo meccanismo cominci a far venire in mente qualche cosa… ci siete?
Alcuni commentatori hanno poi interpretato che in una partita di zara i giocatori “chiamavano” i numeri e poi dovevano farli. Questa ipotesi mi pare largamente fantasiosa, non vi è alcuna evidenza di ciò nei versi di Dante e tanto meno ne El Libro de los Juegos de Alfonso X del 1283, che il grande Giampaolo Dossena considerava il più bel libro di giochi mai stato scritto. Può benissimo essere che i giocatori usassero chiamare a scopo esortativo i numeri più probabili, sperando che la loro “sorte” fosse proprio quel numero. Ma in ogni caso era poi il lancio effettivo che decideva.

E intanto, vi è venuto in mente il riferimento? In effetti la Zara, e ancor di più altri giochi di dadi menzionati nel libro di Alfonso X, può a buon diritto essere considerato un antenato del moderno Craps (eccoci!), che nella sua essenza si basa proprio in una sfida fra il giocatore che lancia due dadi e il suo avversario (la casa da gioco). Il lanciatore vince subito se fa 7 o 11 (seven eleven!), perde subito se fa un “craps” (2, 3 o 12), mentre negli altri casi l’esito diventa il punteggio che il lanciatore, continuando a tirare i dadi, dovrà cercare di realizzare nuovamente prima che di ottenere un 7.
Certo, nell’attuale gioco da casinò, a complicare la questione ci sono moltissimi possibili tipi di scommesse (la maggior parte delle quali altro non sono che trappole per gonzi… bisogna sempre essere consapevoli degli aspetti matematici dei giochi che si praticano!), ma l’essenza resta proprio quella. Un solo giocatore lancia mentre l’altro è spettatore passivo, seppur coinvolto nell’esito. Alcuni risultati fanno terminare subito la mano determinando già al primo la vittoria di uno dei due contendenti, altri fissano un numero che bisognerà cercare di riottenere.

Così almeno – se vi troverete davanti a un tavolo di Craps in un luccicante casinò di Las Vegas o di Reno – saprete che il gioco che vi state divertendo a seguire e che è stato immortalato in innumerevoli film, a partire da Casinò fino a Proposta indecente – ha radici assai lontane. I suoi progenitori venivano praticati in Europa secoli prima che le caravelle di Colombo attraversassero l’Atlantico.

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